Sembra assurdo evocare il ricordo di una persona attraverso il ricordo di quella persona custodito da altri. Infatti quando Giovanna Sicari ci lasciava nell’ormai lontano 2003 il sottoscritto aveva tredici anni e solo allora cominciava a masticare un po’ di poesia. Figurarsi che sempre il sottoscritto, quando nel più lontano 1989 usciva Sigillo (Crocetti), ancora doveva venire al mondo. Sarebbe stato diverso se ci fosse stata l’opportunità di accedere alle letture, ma non era facile reperire i libri di Sicari e, mentre la curiosità rincorreva le voci, non bastava accontentarsi di sbirciare qualcosa sul web. Per questo dopo trent’anni (2019) la nuova edizione di Sigillo (Donzelli) ha il sapore di una visita da tempo desiderata a un luogo semisconosciuto.
Ho incontrato Giovanna Sicari leggendo Tema dell’addio (Mondadori, 2005) di Milo De Angelis, un libro che inizia con una premonizione, o addirittura con una profezia («Ogni cosa era lì, / deserta e piena, per noi che attendiamo»), e che termina con il suo avveramento: «Il canto / del cigno, la chiara / sorte di questa domenica». Non è un caso che abbia parlato di profetismo, dacché di rimando Sigillo di Giovanna Sicari sembra proprio l’oracolo di una sibilla. Nella nota che chiude la recente riedizione della raccolta lo stesso De Angelis tratteggia il profilo di una donna posseduta dal demone della poesia, quasi che non potesse essere o fare altro se non assecondare il convergere dell’intera vita nel magma della scrittura e nel momento in cui tutto frana inevitabilmente sul foglio:
«Tutto visto attraverso il respiro della poesia. “Una via obbligata”, appunto, un’ossessione. Non esistevano scappatoie o alternative. Non esistevano nemmeno vie laterali in cui poter sostare e prendere fiato. Solo quella, la strada. Sempre e solo quella. Giovanna non aveva altri modi espressivi. Scrivere una lettera, una cartolina o un sms era per lei un supplizio, una cosa contro natura. Lo faceva con lo sguardo rassegnato e riluttante dell’animale costretto a forza. Ma quando scendeva su di lei la voce della poesia, ogni fibra del suo essere riprendeva luce e vigore. Era un rito. Si avvicinava alla scrivania, la liberava dai libri e dalle carte, si sedeva su quella sedia amaranto con il suo quaderno aperto e cominciava a scrivere. A lungo, senza fermarsi, posseduta da quella visione e da quell’impeto da quell’improvviso stato di trance che le faceva estrarre da qualche parte remota di lei parole mai pronunciate o addirittura sconosciute, da verificare poi sul dizionario. Così è nato Sigillo, alla fine degli anni ottanta, e così è nata tutta l’opera successiva di Giovanna, percorsa da una misteriosa sapienza che le consentiva di immergersi nelle zone più oscure e brucianti della lingua poetica e di chiedere tutto alla poesia».
Nell’introduzione all’opera Giancarlo Pontiggia definisce la poesia di Sicari un «atto di resistenza rispetto alla “bruttezza”» per poi concludere circolarmente con la constatazione della presenza di una «forma di protesta contro la natura delle cose» quale «atto supremo di amore per la vita così com’è, nel suo alternarsi di dolori e di gioie, di slanci generosi e di cadute fatali». Impossibile, evidenzia Pontiggia, non pensare a Rimbaud che nella Saison ingiuria la Bellezza per poi reinventare a parole un mondo che anche Sicari desidera purificare riconducendolo a una dimensione pagana, rituale e mitologica. Il procedimento analogico di Sigillo (che ricorda proprio la verticalità di De Angelis quanto l’uso di un lessico e di concetti quali «vene», «rito antico e perfetto», «muscoli tesi») favorisce la continua oscillazione dalle contraddizioni del presente verso un nuovo mondo possibile, nonché da riferimenti concreti ad astrazioni dove vengono stabiliti i collegamenti più audaci. Tali riferimenti alla realtà rimandano sempre a una natura cruda e primigenia, dipinta con un linguaggio altrettanto rude che confluisce nel flusso di un verso stilisticamente «concitato, mosso, in azione», come rileva ancora Pontiggia, e che forza spesso i margini metrico-strutturali dell’endecasillabo.
L’opera si presenta divisa in quattro sezioni: Viaggio clandestino, Zona franca, l’eponima Sigillo e La madre. Nella prima il tema del viaggio si dipana nella modalità della «luce in viaggio» e dell’«accesso / ad un passaggio invalicabile». Nell’approccio sensoriale al mondo la realtà assume i labili contorni dei passaggi di stato («idea di nevicate buie e solide come il pane») che rimandano appunto alla speranza di resistere: «Oh l’argilla di quei corpi rispetto a quelle vetrate! / Momento estratto per forza, come in apnea / confluendo in ruvida paura nel vuoto della prudenza».
Nella brevissima Zona franca Sicari varca la frontiera di quella truce realtà («Per un lavoro malpagato pretendevano / la rincorsa, ma io in zona franca / scherzavo, ero fuori dal turbine della frontiera») per entrare in un campo più indistinto di immagini («Se non ricordo lo scherno precedente / se sulla questione ho steso lo schermo dell’estate») che auspicano un cambiamento («Beata marcia svuota il passaggio»; «io sfuggo e mi accaloro per un altro recapito»).
Già dal titolo la terza parte – la più articolata – rappresenta invece, nello «stato di battaglia» e «nello spazio chiuso ed enigmatico di un sigillo» (Pontiggia), lo snodo principale di quella resistenza («afferrando la luce dell’embrione»; «impareremo a vivere»): al vuoto («Io non so cosa voglia Dio da me / perché mi spinge fuori dalla memoria»), allo smarrimento dell’identità («Piove tantissimo e tutti chiamano / il padre, volti di statue e di bambini»; «in un soffio di vento si è perduto il nome»), alla distorsione percettiva («erano curve / le loro vene, i giardini / oh i giardini giravano dentro / sdoppiati, oltre ogni misura scoppiavano»), alla ripetizione dell’esistere («È ora tarda, fra un attimo l’insegna / si spegne, cupissimo tutto si ripete / egregiamente ogni volta»), al dubbio («Oh vita! In quale dubbio inquieto giacevi / premendo sulla bocca respiro ed espiazione»), al dolore («il dolore dei tenti mi giunge / come un passo attutito / ed è tanto dolce, è di pietra»), al disincanto («Chi resta non chiede dov’è l’avvento»), all’«inganno» («che abbia forma / e illusione di forza»). La resistenza è finalizzata al raggiungimento di uno stato di «giustizia», di un difficile e precario equilibrio mediante la soluzione di un enigma («Sabato di rebus e di affanni escludi lo scontro facciale / notte del momento accompagnami in modo naturale»), o almeno di una momentanea «tregua».
Infine La madre, la sezione più incisiva e forsanche decisiva del libro, conduce il discorso all’interno di un orizzonte di riflessione per certi aspetti civile (non a caso in esergo c’è Pasolini), per altri ancora mitico e arcaico, dove il soggetto si confronta con lo scandalo e la precarietà collettivi. Allora tra «la bomba al napalm che è caduta» e le madri scosse dagli eventi più disparati della storia si inseriscono vari punti di vista («ognuno / s’improvvisava / regista e sperava un finale diverso») che dialogano con quello centrale dell’autrice, che sembra farsi carico di un peso condiviso («Io mattatrice presa nel mezzo di un falso movimento»), caratterizzato però da intime ferite («Uomini come una vergine vorrebbero aprirmi»). Il ritiro nella contemplazione di ricordi familiari («Non è per ingannarti mammina, che sei svanita in me») e in un disturbante frastuono privato («nelle orecchie / l’orchestra») preludono al definitivo sigillarsi nelle memorie che testimoniano l’essere al mondo.
Da Sigillo (Donzelli, 2019)
Vigilia di Natale
Sono nella frenesia
della strada che pare insensata
il dolore dei tanti mi giunge
come un passo attutito
è tanto e dolce, è di pietra
questo loro terrore, si accostano
e chiamano, è in bilico la mente
chi dirà santo questo percorso
chi laverà le nostre prediche
di sangue, chi capirà l’oltraggio
la scomparsa, la salvezza.
Dio, da’ gambe più forti
a quanti sono all’erta in questa notte.
*
Polvere medievale dove sei?
Dove siete Marlene, Gilda, Cleopatra, dov’è il sangue eterno
delle donne, e delle donne nate uomo e delle dive e delle puttane
e delle pie donne cantatrici di un sinistro rovello?
Il filo di sangue che corre nel vostro inferno
è la debolezza di cui gli uomini non sanno nulla,
e come poter essere madri con i seni di Lola
e l’assenzio negli occhi, e come poter essere
una donna che non tradisce, che non geme
che non dona una bocca calca in una via qualsiasi
come poter essere una donna ingrata di questo tempo
come poter non essere oltraggiata da voi maschi inferiori
feriti di una ferita di cui io sono innocente!
Consegna
Bianche stanze ho conservato
purissimi orologi ad acqua
casse intere di musica per
eletti principi di vecchi tempi
fra l’una e le due, in punta di piedi,
nella chiesa dei malvissuti
indenne e ferma, ho fissato
la veglia tenendomi nel pugno
dei quasi pazzi, dei posseduti
e dei santi, a quell’ora, assassina,
mi convertivo ad un passaggio
fresco di niente, più di dieci
anni per disporre segni e sigilli.
Giovanna Sicari (Taranto, 1954 – Roma, 2003) è stata una delle voci più rappresentative della poesia italiana di fine Novecento; tra le sue raccolte poetiche, oltre al capolavoro Sigillo (uscito per la prima volta nel 1989 presso Crocetti), ricordiamo: Decisioni (Quaderni di Barbablù, 1986), Ponte d’ingresso (Rossi & Spera, 1988), Uno stadio del respiro (Scheiwiller, 1995), Roma della vigilia (Il Labirinto, 1999) e il postumo Epoca immobile (Jaca Book, 2004). Ha inoltre pubblicato La legge e l’estasi, sulla sua lunga esperienza di insegnante carceraria a Rebibbia (I Quaderni del Battello Ebbro, 1999) e Milano nei passi di Franco Loi (Unicopli, 2002), e oltre ad aver curato il volume collettaneo La moneta di Caronte. Lettere e poesie per il terzo millennio (Spirali, 1993).