POESIA COSA BORGHESE? UNA NOTA PER FORTINI (2a e ultima parte)

III

Le quotazioni nella borsa dei valori poetici salgono e si abbassano col passare degli anni, spesso legate alle ricorrenze e agli anniversari; Fortini sale superando Caproni e forse Sereni, Luzi scende incalzato da De Angelis (che promette il lusso dell’immagine allusiva e misterica senza il rigore del cattolicesimo), Pasolini ha fatto fortuna sui mercati francesi e staccato tutti di un bel po’, Pagliarani e Bertolucci sono stazionari e vivono di piccola rendita nell’attesa che qualcuno scopra che la Neoavanguardia e i mandriani non esistono più, e così volendo si potrebbe andare avanti. Non dunque di preferenze o classifiche di qualità vorrei qui parlare (fatta salva poi oltretutto la buona dose di discrezione che conservano queste cose) ma delle ragioni per cui la poesia di Fortini è difficile e ha pochi lettori.

C’è una nota in questo senso illuminante nella sua prefazione alla traduzione delle Poesie e canzoni di Brecht, il poeta moderno al quale ha dedicato la maggior parte dei suoi sforzi traduttivi ed esegetici:

«in Brecht non c’è mai nessun appello iniziale al senso comune, la struttura ideologica ‒ che è, almeno per le poesie della maturità, quella marxista ‒ precede, non segue, il qui-e-ora della poesia»[1], il poeta cioè non ci chiede o non si aspetta di destare in noi immedesimazione e sentimento, non si aspetta che, partiti da premesse comuni si giunga a comuni conclusioni, piuttosto espone, ragiona, a volte cerca di convincere ma a rigor di fatti non sempre. Detto un po’ volgarmente lascia in secondo piano l’empatia del lettore, soprattutto se questi è un borghese e non marxista; non aspira dunque ad essere poesia universale perché non crede alla pretesa della borghesia che universalizza la sua estetica e la sua ideologia, è anzi sfacciatamente di parte.

Franco Fortini

Spesso Fortini ha imitato Brecht cercando di applicare gli stessi principi alle sue composizioni, ma lo ha fatto attuando una sorprendente inversione: «Le poetiche dell’ermetismo potrebbero essere, paradossalmente e sotto scoppi di risa, riabilitate»[2] scrive nel suo saggio forse più famoso, e un certo ermetismo e persino una certa sgradevolezza permangono sempre in Fortini: «Vorrei che a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di un rettile»[3] aggiunge poco oltre in apparente contraddizione con quanto ha dichiarato in un’intervista su Una volta  per sempre, cioè che (perché non si creda che vogliamo cadere nel culto della minoranza e nel disdegnare ciò che piace ai più) si augurava che il libro fosse letto da quante più persone possibile. Vale per molte sue poesie quello che vale nella nota di Brecht su Lirica e logica :« La pretesa più elementare è che una poesia trasmetta per contagio al lettore la sua atmosfera emotiva, questo contagio. Questo contagio è un’azione vaga, ancora non molto ben definita, è, direi quasi, di natura formale. La capacità di contagio di una poesia può essere limitata da diversi fattori: luogo, persona, professione, nazionalità, classe sociale. Non è affatto detto che le poesie che riescono a commuovere il maggior numero di persone siano le migliori».[4]

Allora ora ci è un po’ più chiaro che per capire e apprezzare i versi di Stammheim non occorre tanto essere storici degli anni Settanta (o aspiranti terroristi) ma percepire che cosa significhi l’incertezza tra una sentenza brutale e l’indifferenza o il consenso generale, così come anche se a una prima lettura sfuggono i molteplici riferimenti di Il presente, si deve però cogliere il senso di un’attesa impotente e insieme vivificata dalla consapevolezza della  stratificazione dei prodotti storici, non ultimo noi stessi e la nostra opera per mutare il mondo, il solo piccolo guaio è che bisogna però volerlo mutare. Persino per leggere Il comunismo non occorre (anche se non guasta) essere comunisti, occorre però essersi posti il problema della via all’azione, aver sentito almeno una volta la propria difformità non dagli “altri” o dall’altro gruppo, ma dai propri stessi compagni per lo stesso fine impegnati. Chi non condivide le stesse tensioni di Fortini difficilmente lo ama e l’affermazione è meno banale di quanto sembri se si pensa ai casi di Luzi, che non ci chiede di essere cattolici, di Pound, che non esige che siamo fascisti antisemiti, di D’Annunzio, con cui non va d’accordo praticamente nessuno ma che, più o meno nascostamente, piace a tutti. Le poesie di Fortini non si chinano mai sul lettore, pretendono da lui che si ponga alla loro stessa altezza, anche da questo deriva un certo fastidio, una pesantezza e uno sforzo nella lettura.

Questo poeta ebbe certamente molto chiare le forme i modi e i limiti della sua poesia che oggi non a caso ci appare come un insieme molto compatto, non diseguale negli esiti e consequenziale alle sue premesse istituendo un nesso tra poesia e cultura borghese, si pensi alla polemica sulla lingua con Pasolini, che tradotto nei termini ideologici della borghesia che furono essenzialmente quelli di Montale e più problematicamente quelli di Sereni, viene a identificarsi con quello tra moralità e stile nel quale, sia pure da un punto di vista diverso e fortemente autocritico, anche Fortini riconosceva inscritta l’opera sua.

Sereni è infatti, a mia opinione, il più diretto simile e avversario di Fortini nella canonizzazione poetica proprio perché entrambi, sia pure su posizioni politiche ed estetiche diverse, rappresentano la prosecuzione di un’idea altoborghese di poesia, la famosa “opera” che alla fine non muta nulla ma alla quale ogni sforzo è teso; opera che per Fortini comincia con la prima poesia di Foglio di via, È questo il sonno e termina con l’ultima di Composita solvantur che, mezzo secolo dopo, quel verso riprende. A Sereni Fortini ha dedicato ampia attenzione e pagine a volte commosse[5] soprattutto dopo la morte e i due intrattennero un fitto carteggio ora ben analizzato in un saggio di Luca Lenzini[6] che non a caso cogliendo la profonda affinità tra i due poeti dopo numerosi libri e scritti su temi fortiniani ha recentemente dedicato un volume a Sereni. È però Fortini stesso che a partire dagli anni Ottanta riflette sempre di più sull’opera dell’amico scomparso e, io credo, non solo in una veste critica come nel famoso epigramma degli anni Cinquanta

Sereni esile mito

filo di fedeltà

non sempre giovinezza è verità

un’altra gioventù giunge con gli anni

c’è un seguito alla tua perplessa musica…

 

Chiedi perdono alle “schiere dei bruti”

se vuoi uscirne. Lascia il giuoco stanco

e sanguinoso, di modestia e orgoglio.

Rischia l’anima. Strappalo, quel foglio

bianco che tieni in mano.

 

dove chiaramente il bersaglio polemico è l’idea della letteratura sereniana come una tormentosa vocazione alla parola e al foglio bianco che ne indica la ricerca, costantemente inscenata in Sereni drammaticamente come rapporto tra l’io e il mondo, perché appunto questa postura estetico morale pone un discrimine tra il poeta (il borghese cosciente di sé che costruisce la sua soggettività attraverso la scrittura) e i “bruti”, cioè gli uomini senza l’autocoscienza borghese. Fortini invece più di trent’anni dopo si rese conto che la situazione era mutata o che, per diversa via, le stesse premesse di drammatizzazione della coscienza, magari nella forma del rapporto tra volontà di essere poeta e impegno politico, tra emancipazione delle masse e grande tradizione borghese (che è sì lavoro non alienato ma è anche specchio di altri rapporti di alienazione di società passate), erano anche le sue e come quella borghesia e quell’ideologia umanistico-letteraria che costituiscono la premessa delle opere di Sereni stavano sparendo, così nel mondo dell’amico spariva anche il suo e non, ovviamente, per lasciare il posto al socialismo : «Anche gli errori intellettuali di cui essa [la poesia] si nutre devono essere guardati senza rispetti umani, per il bene che dovremmo volere a noi stessi»[7] sono parole che ha scritto per Montale ma che, in una certa misura, potrebbero valere per Fortini stesso.

 

IV

Che la morte della borghesia otto-novecentesca e la crisi delle sue ideologie sia anche la crisi dei modelli poetici che espresse, tra cui ovviamente Fortini, è una verità che l’abbondanza e la ripetitività degli scritti di Guido Mazzoni ci esime dal dimostrare e del resto queste pagine, cominciate con così buoni propositi come ogni via all’Inferno, scadrebbero nella fortinologia o nel dibattito sull’attualità o inattualità di Fortini se non ritornassi infine al mio proposito iniziale, parlare di un qualche senso che ci resta dalla lettura delle sue poesie. Per farlo, vorrei portare alcuni esempi meno noti a chi legge queste righe e qualche parola sulla loro scelta per mostrare sollecitazioni diverse da quelle abitualmente ricordate che pure la poesia fortiniana ci può dare:

Qui una breve poesia da Una volta per sempre

ENDLÖSUNG

Kube, Thilo, Mengéle, Gilser, Salmuth

Witiska, Stroop, Strauch, Bormann, Haase,

ahu che creta si strappa in gola, ahu che corda

che croste d’emazie alle unghie, che siero

nelle rainures di graniglia per dissezioni! Nostra orda,

compagni di ginnasio ora costellazioni!

 

Il titolo della poesia in tedesco significa redenzione, parola che ovviamente si associa alla triste fine dei morti nei campi di sterminio, ma che bisogna rapportare anche a due opere sintomatiche: la prima è La stella della Redenzione del filosofo ebreo tedesco Rosenzweig, tentativo di unire il pensiero messianico proprio dell’ebraismo alle categorie dell’idealismo tedesco, di fondare una mistica razionale che fosse in grado di annunciare la venuta del tempo messianico e  la fine della storia; richiamo dolente e sconsolato se a quell’ebraismo universalizzato si contrappone la stella gialla dei detenuti ebrei che da quella storia proprio i tedeschi avrebbero voluto cancellare. Il secondo è l’ultimo aforisma dei Minima Moralia di Adorno:

Per finire. La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero. È la cosa piú semplice di tutte, poiché lo stato attuale invoca irresistibilmente questa conoscenza, anzi, perché la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto. Ma è anche l’assolutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, al cerchio magico dell’esistenza, mentre ogni possibile conoscenza, non soltanto dev’essere prima strappata a ciò che è per riuscire vincolante, ma, appunto per ciò, è colpita dalla stessa deformazione e manchevolezza a cui si propone di sfuggire. Il pensiero che respinge più appassionatamente il proprio condizionamento per amore dell’incondizionato, cade tanto più inconsapevolmente, e quindi più fatalmente, in balìa del mondo. Anche la propria impossibilità esso deve comprendere per amore della possibilità. Ma rispetto all’esigenza che così gli si pone, la stessa questione della realtà o irrealtà della redenzione diventa pressoché indifferente.[8]

così la redenzione alla quale vanno in contro questi morti pare non essere quella di una prospettiva religiosa ma tutta materialistica, una volta che però il nostro pensiero abbia saputo posarsi su di loro in quel modo e con quell’attitudine al mondo: a dispetto di quanto si creda nemmeno la presenza dell’anima e della vita dopo la morte serve a dare respiro alla poesia, anzi quanta forza in quei «compagni di ginnasio» disintegrati nei forni che continuano a vivere la vita della materia e proiettano la loro redenzione sul tempo cosmico delle «costellazioni»!

da sin.: Franco Fortini e Vittorio Sereni

C’è però un ultimo aspetto che vorrei notare di questa poesia: la presenza di una sorta di ironia tragica nell’idea che le grandi personalità facciano la storia. I primi due versi sono costituiti solo da cognomi di SS, medici dei campi di sterminio, generali nazisti, ma sono i soli che appaiano come individui, i soli a cui sia data la consistenza biografica su cui solitamente poggia la lirica e anche nella memoria (pensiamo al citatissimo libro della Arendt tutto centrato su Eichmann) ricordiamo più spesso i massacratori dei massacrati i quali perdono la loro esistenza individuale nel grande numero. La storia conserva più volentieri coloro che ha condannato e fin dal primo omicidio: Caino sarà sempre più prolifico di Abele.

Passando ora a una poesia di diverso tono, dove si vede all’opera il lettore di Machado.

Questo verso

– Tu conmigo, rapaz? – Contigo, viejo.

 

Notte ancora e la casa nel suo sonno.

Già sveglio, andavo alla finestra, aprivo

le imposte del terrazzo,

su quella ringhiera posavo la fronte.

 

Oltre gli orti ancora bui, le chiese e i culmini,

il cielo era chiaro in cima ai rami

dei platani, dei lecci e degli allori.

Il disegno era rigido e preciso,

contro i colli, dei cipressi e delle rondini.

 

Perché pietà per quell’ombra, perché

la scongiuro se scorgo

le orme di minuscole ferite

sui ginocchi dei ragazzi e, mi rammento,

gustavo fra i denti le croste brunite

raschiate alle mie cicatrici.

Atterrito dal mondo e da se stesso

Egli fermava contro il ferro la sua tempia.

 

Rispondo che è pietà per l’avvenire,

per il patire interminato che

entro tanto splendore uno spavento

come una bestia immane dall’azzurro

annunziava a quel misero tremante

nella felicità che il pianto libera.

Da qui lo assisto, da qui ora lo consolo…

 

Poi quando i rami al raggio si avvivavano

della meravigliosa alba serena

l’Apparita lontana era speranza

al primo vento già volando questo verso.

 

Questo testo è stato molto ben analizzato da Lenzini[9] e io qui mi limito a dire che il notturno quasi leopardiano delle prime due strofe è un attacco che piacerebbe ai più accaniti sostenitori del lirismo, ma presto si muta in un colloquio tutto emotivo a distanza tra il “vecchio” Fortini e l’immagine di sé da giovane. Non si tratta di bovarismo deluso ma di «pietà» per la nostra stessa immagine del futuro, le potenzialità della giovinezza che sono in parte non compiute e in parte sono “salvate” proprio da ciò che siamo, sia pure, come è stato da molti scritto, con la soppressione della possibilità della costruzione di una identità armonica e non alienata nella società capitalistica.

La possibilità della consolazione adulta per l’infanzia perduta che sopravvive nella creazione poetica come gesto di autenticità e non di regressione, capace di vincere le ansie notturne in nome della «speranza» e non della fuga è una delle grandi risorse che ci lascia questo tardo Fortini.

Se devo poi venire a una poesia a me particolarmente cara ma più spesso chiosata che amata un ritratto alternativo del poeta non può prescindere da questi commossi versi per Panzieri.

Raniero

Ancora un saggio su «Quaderni rossi».

Da sedici anni nel cimitero di Torino

conosci l’altra parte, l’elegia ti fa ridere.

 

Che cosa tu avessi davvero voluto non so.

Quale la distrazione, la deriva.

Che biologia ti costringesse. Ti chiamo

per una augusta convenzione.

Ci sono solo io e tutti gli altri

A metà del non esistere.

Le strida sono immaginarie inanes

cum inani spe o paene extinctae

rerum imagines.

O siamo invece a metà

nella storia dei corpi gloriosi vuoi dirmi?

 

Ad una prima lettura si ricava poco più che la dimensione di incertezza sulla salvezza, ma il pensare al colloquio che ancora lega i due e la volontà decisa di evitare ogni patetismo elegiaco che di solito costituisce il nerbo della poesia funebre danno a questo testo una grazia particolare. Ci mostra un Fortini che nei suoi anni vide non la storia politica o letteraria come noi, anche gli accaniti lettori di saggi sui Quaderni Rossi, la leggiamo ma come il campo del proprio percorso individuale e di quello collettivo del quale rimangono le memorie degli amici da interrogare su che cosa sia questa esistenza, che si cerca, adornianamente ma anche molto materialmente di redimere e liberare.

Che vi sia, infine, qualcosa di profondamente tragico nella visione della storia di Fortini, ben lontano dal risolversi in una dialettica storica progressiva, ma nondimeno tanto più tragico perché non butta a mare la dialettica per abbracciare un tragicismo religioso e estetizzante è bene espresso anche da quella che è, per quanto noto, la sua ultima variante in vita:

Mi hanno spiegato che le bestie e l’erbe,

cieche o modeste o vinte o assopite

o in sé raccolte, dimesse, sfinite,

rapprese nei miei versi,

 

sono una madre di me stesso, immagini

di sonno e di custodia.

Ma ormai sonno non ho, non ho custodia.

È senza requie questo male, padre.

 

Questo testo compare così nell’attuale edizione di tutte le poesie[10] ma nella versione del ’97 delle poesie inedite l’ultimo verso era «e tutto farà ancora male, madre»; la sostituzione dei due se pure rompe una certa armonia interna della poesia risolve quella che poteva essere una semplice digressione psicoanalitica in una assai più terribile affermazione che oltretutto predispone una serie di taciute domande senza risposta: chi è il “padre” cui la poesia si rivolge? Qual è questo male? E perché non può avere requie? Se è difficile immaginare un lettore di Fortini, molto più che un lettore di Machado, è anche perché alle famose sere di scoramento di cui Giudici parla è questa la risposta che Fortini sembra dare.

 

V

Poco importa dunque che i pioppi tornino a stormire in riva al Duero, non c’è consolazione possibile, il male umano è un

ancora Fortini

male che sta nella storia dei suoi rapporti sociali ma non può essere del tutto eliminato, nondimeno deve essere combattuto perché solamente così si potrà evitare che a quel male si cerchi una troppo facile via di fuga mistica. Se dunque devo incaricarmi io per primo di rispondere alla domanda perché passare anni a studiare Fortini potrei rispondere perché vi trovo scritto, oltre a quanto la fortinologia professionale ha giustamente dimostrato, anche tutte queste indimostrabili cose. Non ultimo il fatto che una poesia che ha molto chiari, fino al settarismo, i suoi destinatari ideali e i suoi limiti storici, di classe e perfino di riuscita artistica, ci ricordi come è cordiale non scivolare in una conciliazione impossibile tra i borghesi che scrivono le poesie e le masse che fanno la storia che non ricorderà i loro nomi, a metà del non esistere dove entrambi si trovano, nell’unica esistenza possibile, fatta anche di pioppi, di socialismo possibile e di cordiali lettori di Machado.

 

 

 

____________________________________________________________

[1]  Bertolt Brecht, Poesie e Canzoni, Torino, Einaudi 1959, p. VIII
[2]  F. Fortini, Saggi ed Epigrammi cit. p. 66
[3]  Ibidem p. 67
[4]  B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte,  Torino, Einaudi, 1973 p. 249
[5]  Si vedano in proposito i saggi «Il musicante di Saint Merry», Verso il valico, Oltre il paesaggio e Ancora per Vittorio Sereni in F. Fortini, Nuovi saggi italiani 2, Milano, Garzanti, 1987 pp. 164-207
[6]  Luca Lenzini, Due sponde, sul carteggio Sereni-Fortini in Verso la trasparenza. Studi su Sereni, Macerata, Quodlibet 2019 pp. 139-168
[7]  F. Fortini, Nuovi saggi italiani, cit., p. 141
[8]  Theodor W. Adorno, Minima Moralia, Torino, Einaudi 1994 p.304
[9]  Cfr. L. Lenzini, Stile tardo, Macerata, Quodlibet, 2008
[10] Si veda F. Fortini, tutte le poesie, cit., p. 818

2 thoughts on “POESIA COSA BORGHESE? UNA NOTA PER FORTINI (2a e ultima parte)

  1. Le argomentazioni qui presenti sono dense e fondamentali. Interessante è la citazione Lenzini. Rimane per me che vuoi un accanito lettore di Fortini qualche ombra o nebbia, ancora. Il saggio in qualche modo la replica questa nebbia, proprio nell’apparente parallelismo o simmetria tra Sereni e Fortini. C’è da chiedersi ancora, dunque, qualcosa sulla querelle tra Pagnanelli che dedico a Fortini una importante monografia e l’inquietudine di Fortini che aveva consigliato a Remo di espungere un capitoletto relativo Appunto al fondo ebraico che sembrava Remo, ma anche a me, totalmente rimosso. Voglio dire che mentre Sereni, dico del suo lirismo apparentemente atonale In verità timbrico e melico, non abbandona ante Una straziante musicalità, può essere anche letto Come recupero di una Laica metafisica attraverso i versi, nel caso di Fortini Noto un Gorgo o come un tormento nel voler abbandonare la sua genetica matrice a favore di un comunismo lirico realistico, sulla cui scommessa, in senso stilistico ed estetico, c’è ancora da fare i conti. Mi pare di assistere ad una drammatica, Per quanto riguarda Fortini, operazione incompiuta, una guerra tra la sua intelligenza è un inconscio che preme altrove. Questo angoscia e questo dramma si legge ovunque e comunque in Fortini, e probabilmente dentro questo Gorgo e il suo lirismo Combattivo. Complimenti per il bel saggio che mi ricorda finalmente i saggi densi degli anni 70 e 80 rispetto a quelli deludenti e meramente descrittivi di oggi. Guido Garufi

  2. “Ci mostra un Fortini che nei suoi anni vide non la storia politica o letteraria come noi, anche gli accaniti lettori di saggi sui Quaderni Rossi, la leggiamo ma come il campo del proprio percorso individuale e di quello collettivo …”

    Mi pare che in questa frase sia saltato qualcosa… e che quel ” anche gli accaniti lettori di saggi sui Quaderni Rossi” resti sospeso…nel vuoto.

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