POESIA COSA BORGHESE? UNA NOTA PER FORTINI (1a parte)

A B.

Agua del buen manantial,
siempre viva.
fugitiva;
poesía, cosa cordial. (Machado)

Cosí disperato giocare
la cosa chiamata poesia
quella vorresti fare? (Orten)

 

 

di Luca Mazzachiodi

Capita spesso che quando si studia un’opera letteraria per mestiere, specie se lo si fa per alcuni anni e a questo studio si accompagnano, come è naturale ma non sempre esaltante, ripetute esposizioni, convegni, pubblicazioni specialistiche, si acquisisca rispetto all’opera (o alla figura intellettuale) una certa freddezza che oggi viene volentieri scambiata per attitudine scientifica. Gli anni cominciano a sommarsi agli anni e i libri ai libri, ma il rischio è di finire come chi studia tutta la vita un fenomeno morfologico del norreno, un manoscritto del primo Quattrocento o l’evoluzione di un dato batterio sapendo rispondere su ciò a ogni domanda, anche la più dettagliata, tranne a quella più semplice e insieme impertinente: perché?

Per questo motivo ho voluto prendermi lo spazio di questa breve nota non per illustrare con dovizia di riferimenti questo o quel libro di poesia di Fortini, come in altra sede ho fatto, ma per un ragionamento in tutta franchezza sull’idea di poesia che ci resta da tutto il corpus delle sue opere e, se possibile, dire due parole sul suo senso: la fortinologia (disciplina che, poveri noi, ho sentito realmente nominare e che gode persino di un qualche prestigio accademico in alcuni ambienti) rischia del resto di essere la tomba di un autore che aveva ben resistito agli ideologismi disperati prima e alla caccia alle ideologie poi. Poesia cosa cordiale si intitolava una vecchia antologia (edizioni Nuova Accademia) di poesie di Antonio Machado e ben riflette certamente l’immagine che del poeta di Siviglia dovettero avere diversi grandi poeti del nostro Novecento che lo amarono: l’idea che in quei versi ora petrarcheggianti ora popolari il motto di spirito e la descrizione impressionistica possono convivere tranquillamente con non ammiccanti allusioni a Kant o ad Heidegger e persino con la denuncia delle atrocità della guerra e che, insomma diciamolo, una volta finita la guerra e sconfitti i criminali franchisti e nazifascisti, l’anima nera della reazione, i pioppi torneranno a stormire tranquilli lungo il Duero.

Fortini stesso amò molto Machado, lo citò e gli dedicò un curioso epigramma[1]:

Habla don Antonio Machado:
En mi jardín el agua coria alegre…
Y Después fue el Segre.

Si riferiva al contrasto tra l’attitudine bonaria, quasi ingenua del pittoricismo lirico di certi versi di Machado, un’idea a suo modo romantica e suggestiva della composizione (evidentemente popolare e piccolo borghese) e le sottigliezze della più accanita e scaltrita critica strutturalista che demistifica i processi compositivi e ci restituisce il testo come un prodotto, facendo piazza pulita di idoli critici romantico-idealistici come l’autore, l’opera o le intenzioni, queste ultime soprattutto una sconceria buona per i poeti di provincia.

Potremmo voler pensare che in quel jardín e in quel agua alegre però Fortini voglia alludere anche alla poesia come atto creativo, come sviluppo del libero gioco delle possibilità umane, secondo un tema schilleriano delle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo che passa in diversa forma via Hegel, Marx, Lukács, Bloch, Schaff, Marcuse nel marxismo umanistico del Novecento: l’idea dell’opera d’arte in cui l’uomo ridiventa compiutamente se stesso, la più alta forma di lavoro non alienato, l’«uso formale della vita che è il fine e la fine del comunismo».  Il saggio più bello però su Machado è stato scritto forse da Giudici che ragionando sul rapporto tra scrittura della poesia e pubblico di lettori scrive così:

«Tu scrivi da trent’anni poesie come se fossero destinate ad un pubblico che però esiste soltanto nella tua immaginazione, mi diceva qualche tempo fa Franco Fortini […] D’altra parte bisogna vedere che cosa s’intenda per “pubblico”: per esempio nel corso di un’intervista, alla domanda su quale  fosse il tipo di lettore che auspicavo per i miei versi, mi è accaduto di rispondere non troppo scherzosamente “uno come me quando leggo Machado” il che (notiamolo tra parentesi) equivale a dire che il mio “auspicio” rimarrà inadempiuto e non per insufficienza di quel fantomatico lettore, bensì mia. Però quello del me che legge Antonio Machado resta un dato di fatto, perché io lo leggo: con tutto lo scoramento che in certe sere mi spinge a prendere dal piccolo scaffale vicino al letto l’ormai consunto volume delle Poesías Completas, a cercare conforto nella limpidezza e nella musica del suo verso, a specchiarmi nella disarmata autenticità del suo verso, a vivere le sue parole come se lui, da un tempo ormai lontano, le avesse scritte quasi appositamente per me, per il mio proprio uso e ri-uso».[2]

Franco Fortini

Ora nel coniare l’espressione tipologica «uno come me quando leggo Machado» Giudici, che in quegli anni aveva già ben visto la poesia avviarsi a divenire chiacchiericcio continuo e gioco a premi e convenevoli tra autori, mostra di avere ben chiaro, e forse lo ha chiaro per ragioni storiche e generazionali, cosa sia il “lettore forte” di poesia e di cercare nella poesia, o almeno in un certo modo di leggerla, lui quasi poeta di professione e più canonizzato e prolifico di Fortini, quella «Cosa cordiale» che la confidenza con le poesie di Machado sembra rappresentare.

A questo punto però comincia a sorgere una domanda, almeno a me: se esiste il lettore di Machado ed esiste, diciamo, il lettore di poesia o dei classici, quello che ha fatto la fortuna e la speranza di un critico come Harold Bloom e delle sue teorie sull’angoscia dell’influenza in poesia e sul Canone, esiste il lettore di Fortini invece?

Il buon senso farebbe rispondere di no: l’opera narrativa, che da statistiche avrebbe più speranza di essere letta, è scarsa e poco ristampata, la saggistica, che rappresenta la parte principale dell’opera fortiniana con più di una dozzina di volumi e raccolte tra scritti ordinati dall’autore e lavoro di pubblicazione postumo, è reperibile solo per alcune parti (qualcosa di recente riedito nel furore del centenario e di una ondata di studi accademici e il vecchio Meridiano Mondadori ), ma soprattutto è un vero labirinto indecifrabile: Fortini non scriveva libri ma assemblava raccolte di saggi usciti su rivista e si tratta di testi che sono da un lato strettamente legati al contesto nel quale furono scritti e ai lettori per cui erano pensati dall’altro estremamente ricchi, complessi ed ellittici. Sarebbe impossibile oggi capire qualcosa di quei libri senza conoscere la storia politica del nostro paese e d’Europa nel Novecento, senza aver approfondito non poco la filosofia classica tedesca e le varie tradizioni del marxismo e senza conoscere il variegato mondo della Nuova Sinistra e quello ancora più vasto della letteratura Italiana ed Europea, di fatti molto spesso in Fortini i processi allegorici e allusivi delle poesie e quelli dei saggi si somigliano e si parla di qualcosa o qualcuno per dire anche altro; ad essere poi pignoli bisogna dire che, poste queste basi, nozioni di teologia, economia e sociologia vengono subito dopo.

Questo autore richiede insomma un lettore sul suo stesso modello intellettuale, ma che sia giudice e non complice, né imbalsamatore; la stessa struttura dell’insegnamento universitario (realisticamente indispensabile per accostarsi ai saggi in maniera sensata) con la sua nuova veste di divisione scientifica dei saperi (abbiamo un’università realizzata con un tale spirito democratico che se prima si imparava una cosa ora il doppio delle persone impara metà delle cose e la soluzione proposta è tornare ai vecchi modelli classisti ed elitari) ostacola il possesso delle conoscenze che permetterebbero di leggerlo bene; inoltre il naturale passaggio delle generazioni porta al contatto con quei libri persone che non hanno memoria storica dei fatti e per i quali ciò che era senso comune (Fortini scriveva sui quotidiani) diventa acquisito solo dopo un lungo studio.

 

II

Resta dunque la poesia, con sei raccolte più quelle postume, gli epigrammi e le traduzioni che compongono un Oscar Mondadori di ottocento pagine per uno spettro di quasi sessant’anni di attività poetica dalle prime prove ermetizzanti alle poesie edite postume. La raccolta completa è però solo del 2014, prima si doveva ricorrere o ad antologie o alle singole raccolte ormai introvabili.

Fortini non ha, in un certo senso, partecipato al processo di lenta canonizzazione poetica della sua generazione, è anzi spesso caduto sotto le accuse di ideologismo e iperpoliticizzazione, accuse che ovviamente hanno il presupposto idealistico e estetizzante sottinteso che la poesia autentica debba incarnare un’essenza atemporale e non debba essere “sottomessa” a esigenze politiche.

L’ordine di problemi è doppio ma partirei dalla questione della poeticità eterna: certo è difficile pensare che oggi abbia un qualche effetto su di noi una poesia come Stammheim, ora che è tanto unanime la condanna del terrorismo comunista quanto ignota ai più la vicenda della Bader-Meinhof, è ben difficile poi che allegorie come quelle di Una facile allegoria ci siano presenti e la stratificazione di tempi e soggetti di Il presente appare aver preparato tutto meno che «il fuoco nell’ambra dove starò visibile», oltretutto con quella «grande strategia da Yenan a Hopei» che divide inesorabilmente il mondo in chi pensa che si tratti di nuovi modelli di smartphone e chi ha il ricordo di vecchi documentari in bianco e nero sulla Lunga Marcia; quanti infine aspettano ancora La gioia avvenire che non è, come si disse una volta, di questo mondo?

La verità è che se prendiamo una prospettiva di questo tipo Fortini poeta è invecchiato molto e non bene, scorno ulteriore

ancora Fortini

di tutti gli sconfitti dalla storia, non c’è discorso sull’”attualità” che tenga (e pure è un grande topos della fortinologia). Pensando però al nostro più grande classico, cui in fondo credo nessuno sarebbe disposto a negare vitalità poetica, per l’intero o crocianamente per frammenti lirici, per la cosmologia tomistica o ravvisandovi spiragli di modernità individualistica, intendo dire Dante: immaginiamo che tutti i commenti alla Commedia scompaiano in un incendio (sogno forse inconfessato di qualche liceale) e noi non sapessimo più non dico decifrare le metafore astrologiche, ma, per dire, chi era Belacqua o Francesca, in un’era digitale postclassica senza Virgilio «dolcissimo padre» che ne sarebbe della Commedia? Ci commuoverebbero ancora quegli incontri di eterna poesia?

Una più modesta vita anche per Fortini potrebbe esserci se invece di affannarsi a dimostrare la sua attualità il fortinologo elaborasse il lutto e infine si decidesse a commentarlo, annotarlo, farlo divenire per quanto si può tradizione, non per salvare il salvabile ma perché anche della sua opera si possa un po’ cominciare a dire che cosa sia vivo e cosa morto.

Esiste però un altro modo di accostarsi a Fortini che da qualche tempo sembra avere ripreso una sua pratica: leggerlo cioè non come classico della poesia ma come poeta politico. Ecco che dunque da quegli stessi testi si cerca di estrarre un significato politico, filosofico o addirittura un’indicazione per l’azione e ecco dunque la vitalità di alcuni dei testi più famosi, e giustamente famosi: Il comunismo, che campeggiava fino a poco fa sul sito di alcuni partiti nonostante sia un testo a suo modo antipartitico, Traducendo Brecht che probabilmente spinge molti di noi a scrivere e a dimenticare che «bisognerebbe vedere non soltanto che il discorso poetico è altro da quello pratico-politico, ma che il primo non negherà nè distruggerà un bel nulla in quanto tale, in quanto discorso poetico e artistico e che anzi tutte le sue tormentose e ironiche negazioni si comporranno in una forma, nell’odiata e inevitabile “opera”»[3], La gronda presa un po’ troppo alla lettera e foriera di volontarismo pensando che bastino piccole spinte a far cadere grandi sistemi, fino ai versi dell’Internazionale da lui riscritta e diventata ora inno di un movimento politico, anche se la cosa certo non gli sarebbe dispiaciuta.

Bisognerebbe però cominciare un discorso oltre che sui cattivi maestri riabilitati sugli allievi pessimi, quand’anche in buona fede, che a volte li riabilitano, e del resto Fortini stesso non credo avrebbe voluto un suo manuale di azione, considerandosi «un letterato, dunque un niente».

Se esiste insomma il lettore ideale di Fortini oggi deve essere un gran brutto soggetto: o è un accademico o è uno sconfitto esaltato che si lancia in imprese politiche improbabili, passa poi molto tempo a studiare il passato ma ha qualche problema nel rapportarlo al presente secondo le giuste proporzioni, inoltre probabilmente sa tutto visto il tenore dei testi e di persone così non c’è davvero da fidarsi. Siamo dunque davvero nella situazione di avere bisogno di talmudisti, di rabbini comunisti che redigano commenti per integrarli perpetuamente nella tradizione di Verifica dei poteri? Quanto si è accorciata la distanza tra Una volta per sempre e lo Zhoar ora che i comitati centrali di partito sono più misteriosi delle gerarchie angeliche (per quelle almeno c’è Agamben) e che abbiamo appreso anche noi, come scriveva Fortini a Panzieri, che il socialismo non è inevitabile e sui suoi tempi ne sappiamo più o meno quanto su quelli del Messia? (Io naturalmente un po’ scherzo ma i rapporti tra discorso rivoluzionario e discorso messianico sono stati ben altrimenti indagati dal compianto George Steiner e da Michael Walzer nel bellissimo libro Esodo e rivoluzione). Forse dobbiamo guardare ancora più in fondo a quella cosa cordiale chiamata poesia.

 

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[1]   Ora in Franco Fortini, Tutte le poesie, Milano, Mondadori 2014, p. 822
[2]  Giovanni Giudici, Per forza e per amore, Milano, Garzanti 1992, p. 9-10
[3]  Franco Fortini, Avanguardia e mediazione, in Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori 2003, p. 93.

 

Poeta e scrittore, Luca Mozzachiodi (Genova 1992) ha vissuto a Sarzana e attualmente abita a Bologna, organizza letture e laboratori letterari rivolti principalmente all’approfondimento della maggiore poesia italiana ed europea. Ha diretto nel 2013 la rassegna di poesia giovanile a Bologna SpaziDiVersiPer i tipi dell’Editore Serra Tarantola ha pubblicato il poema Le strade di Gerico (2013); ha inoltre pubblicato la raccolta di poesie L’arte della sconfitta (qudulibri, 2017).

La seconda e ultima parte di questo articolo verrà pubblicata mercoledì prossimo, 15 aprile 2020.

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