Come nei libri precedenti (Economia e L’abitante) la poetica di Domenico Lombardini continua a concentrarsi sul suffragio delle identità perdute, sia rispetto al sé e ai suoi significati etici e morali, sia in relazione al governo della comunità. E una tale minaccia si avverte anche in Fuori dalla città (oedipus, 2019, con nota di GianRuggero Manzoni e postfazione di Luciano Neri), al punto che ne viene ripensato l’individuo nella sua irriducibile resistenza contro un mondo dell’uomo (quello posto alla mercè tecnocratica), e non più per l’uomo, dove spesso lo sguardo dell’autore si posa sulla pagina secondo un’istanza pietosa e indignata rispetto all’impossibilità vitale di esperire senso e desiderio. Ne risultava prima un abitante disabitato e inautentico di umanità quando un io poteva confrontarsi a specchio come un qualcosa di deformato e inospitale, a se stesso e agli altri, come uno straniero senza possibilità di redenzione, nel senso benjaminiano.
Mentre ora, da queste premesse, l’autore si muove, per la scrittura di Fuori dalla città, per indagare l’urgenza di una comprensione volta ad approfondire le cause di un tale abbandono rendendo l’uomo passivo e asservito lungo il suo destino comunitario.
Adesso è l’infante, con la sua innocenza, a trovarsi di fronte al logos per eccellenza della società occidentale, la città, quale luogo che accoglie i prodotti dell’uomo e pone al centro il viatico attraverso cui lo sguardo sembra non avere altra alternativa che una definitiva de-realizzazione, con la complicità di un linguaggio poetico quale configurazione limpida di una profonda inquietudine. L’inquietudine che è cifra di un presente e di un futuro imprecisati che sono già adesso, all’interno di una città mondo globale che si è privata essa stessa di mondo.
Così si legge, parafrasando ritraducendo, nella postfazione al libro da parte di chi vi scrive. La città costituisce idealmente la mappatura di un immaginario a cui l’uomo ha legato il proprio destino storico e da cui si alimenta per raggiungere i propri fini, poiché in essa si identifica quale quadro efficientista del progresso. Un immaginario, tuttavia, dove aleggia lo specchio rovesciato della visione dell’imminente declino della civiltà occidentale, dove si scorgono, agli occhi dell’infante, le premonizioni nei segni della negazione. Le forme si riducono a macerie, semantica ricorrente del libro, la rovina si rispecchia continuamente nell’incubo del proprio crollo. E la sconfitta, così pare, sembra non avere altri occhi se non quelli ciechi del progresso, da intendersi come dominio dell’economia sul reale, che si è imposta su masse anonime secondo i bisogni dettati dal ciclo produzione-consumo, e creando zone immense di alienazione in quasi tutta l’intera città-mondo. Tutto ciò all’autore è presente, pertanto i quadri della visione vengono attraversati in lungo e in largo, spazio e tempo, per cercare una risposta come rivolta del proprio sé, quello in origine dell’infante che diventerà uomo, ma che al momento non può che sottrarsi, inerme di fronte al mondo-nulla, senza lingua (Fuori dalla città – nulla/ Questo nulla è l’infanzia).
Alle soglie della città l’infante comprende che dovrà necessariamente entrare in una contraddizione e subire un assedio a cui forse dovrà adeguarsi per sopravvivere. E malgrado il timore di dover vivere una vita come impostura una volta varcato il perimetro murario, dissimulando se stesso in presenza dell’altro e allontanandosi irrimediabilmente dal vero sé.
Il cammino dell’infante è, dunque, anche un procedere verso la conoscenza del vero sé posto come residuo nel dominio del discorso articolato attraverso le immagini falsificatorie che hanno spinto i loro prodotti, le immagini che entrano nel privato, ai limiti di un linguaggio che le ha depotenziate, ormai, dei loro significati più umani.
Di fronte a questa esperienza incompatibile si trova il soggetto infante in prossimità delle mura, lasciando l’incertezza per il certo e forse prefigurando l’impossibilità di vivere un’esperienza che lo includa in sé senza falsi idoli.
Oltre le mura, ci preannuncia ironicamente Chesterton (“Voi non potete immaginare niente di più straordinario di una città in cui tutti si domandino se sono se stessi”), gli abitanti stanno costruendo quell’idea di progresso che li renderà felici per il bene di tutti, prende forma il bios, la forma di vita che si regolamenta nella comunità attraverso le funzioni, i poteri e i ruoli cui ciascuno è chiamato a prendere la maschera. Di tutto ciò fa esperienza il testimone e ci mostra come l’obiettivo umano si sia trasformato nel suo esatto contrario: non è più il sogno ma è l’incubo dentro la città, dove il discorso si dissocia non tanto e non solo dal poetico ma dal linguaggio stesso. La città si trasforma nella proliferazione del diverso e nell’esclusione, attraverso l’alienazione entro la vita domestica direbbe Anders, implode in un’orgia, viene abbandonata dalla pietà e il grottesco trionfa, secondo la profezia hegeliana a proposito dell’arte romantico cristiana, per cui ogni cosa si deforma.
Tra la dimensione angelica e quella bestiale, come mutilazione della bellezza e inconciliabilità di carne e spirito, il grottesco disvela così l’altra faccia del progresso in una natura mostruosa e antinomica, nella pornografia e nella malattia si reifica l’orribile, l’eccessivo, il caricaturale, la complessità del reale si atrofizza e diventa putrescenza, contro ogni possibilità di armonia la malattia mostra l’inermità di accettare i limiti del corpo e la paura della morte, che ha ottenebrato ormai ogni visione. Ad ogni ordine costituito si ribella il disordine. Il linguaggio dunque si scorpora dalla sua stessa vita, il poetico si trasforma in impoetico, ogni forma di sublimazione e trasfigurazione risulta alterata e bandita. Sembra un’enorme mutazione genetica della storia iniettata di progresso, che non può che rinunciare alla tensione verso qualsivoglia significato e lo stesso significante va alla deriva, con ogni relativo nesso logico. Contrariamente al bambino che crea mondo a partire dalle cose che nomina, il linguaggio si scompone rispetto alle sue funzioni e nessuna oggettività è più riferibile. Di tutto questo Lombardini ci rende partecipi, attraverso una lettura che non lascia spazio al dubbio: o la si accetta oppure
Ma c’è un’attesa che pare assecondare l’adesione a un Dio personale e che potrebbe rappresentare, quest’ultimo, una salvezza del vero sé di ognuno, qualcosa, qualcuno: quando il soggetto itinerante si va personificando in un verbo della compassione come intima saggezza, tema che circola attraverso una testura limpida nell’ultima parte della raccolta, nella povertà di un io spogliato del suo superfluo che ci conduce a un“tentativo di condurre la vita senza più sostanza psicologica esperienziale legata a un tempo e ad uno spazio, in direzione di massima apertura, in vista di un nuovo ethos. (“La solitudine pertiene alla prossemica – mi riempio e svuoto ciò che vedo:/solo la cadenza del respiro/ il ritmo dell’incedere fanno sospettare/ della mia presenza -…). L’esperienza storica dell’individuo si libera senza più il bisogno né l’urgenza di una vita che non sia espressione dell’immediatezza e dove nessuna separazione sembrerebbe più sussistere.
Il soggetto ha imparato a guardare le ombre profonde del negativo sotto forma di trappole dove non resta che la visione delle macerie e del non senso che l’uomo duale metafisico ha prodotto. Il progresso della polis si è rivelato un gigantesco cono d’ombra rovesciato dove vivono popoli senza più essenza né identità. A questa fallimentare eredità, una volta fuori dal logos e avendone attraversato l’aporia, il soggetto trae fedelmente nuovi spiragli di senso ai limiti dello stesso linguaggio e il poeta ci concede di scorgere, attraverso la sua rivolta, l’immagine di un Dio personale, ormai anch’esso frustrato dagli esiti della creazione e dei suoi fini.
Ne parliamo con l’autore, che In bottega ha intervistato per l’occasione:
1) La tua formazione è più di ordine poetico, oppure riguarda anche altri ambiti artistici o filosofici?
Non ho una formazione letteraria, nel senso scolastico o accademico del termine. Sono sempre stato un autodidatta, con tutti i pregi e i difetti del caso. Un difetto dell’autodidatta è la maggiore attenzione accordata ai dettagli piuttosto che al contesto generale, alla visione d’insieme. Il pregio è una maggiore libertà d’azione in ambiti talvolta trascurati, eccentrici rispetto alla pratica e al sentire comuni, una visione obliqua in favore di angoli negletti. Per me è importante questo stato irriducibile di apprendista della poesia: soltanto se sento il terreno minato sotto i piedi, solo se mi sento in qualche modo inadeguato ad esprimermi con la parola poetica riesco a scrivere. Quanto all’ambito delle mie influenze culturali e artistiche, su un sostrato di formazione scientifica si sono via via stratificati, negli anni, le impressioni che ho tratto dai miei studi. Dapprima la psicologia e la filosofia, la quale è oggi uno dei miei ambiti di lettura preferiti. Ma anche l’antropologia, le neuroscienze, l’economia e, da ultimo, il pensiero religioso, segnatamente quello cristiano cattolico. La conversione avvenuta in anni recenti al cattolicesimo ha imposto una certa gerarchizzazione al mio pensiero, con ovvie ricadute sulla mia scrittura: diciamo che la zizzania della ricerca della complessità fine a sé stessa a cui indulgevo anni addietro ha ceduto il passo a una ricerca espressiva che rifuggendo da uno sperimentalismo di comodo (e di moda) si è volta decisamente a una tensione verso la semplicità. Questa ricerca della semplicità esige pratica quotidiana ed esercizio costante.
2) Come è nato e si sviluppato Fuori dalla città, mantiene un rapporto di continuità rispetto a quanto hai scritto in precedenza? Quali sono i temi rappresentati?
Fuori dalla città nasce come naturale prosecuzione de L’abitante, a sua volta sviluppo di Economia. A livello macrotestuale, Fuori dalla città indica un percorso conoscitivo e catartico, da intendersi sempre in fieri, il cui inizio e il cui approdo in qualche modo coincidono. Sebbene il movente dell’autore non debba mai essere il punto di vista assoluto sul suo testo, penso che Fuori dalla città debba essere interpretato in vista di una condanna senza appello della città edificata dall’uomo occidentale, i cui segni di cedimento strutturale sono ormai sotto gli occhi di tutti. La distruzione della città, intesa come organizzazione sociale, politica ed economica che gli esseri umani si sono dati, si manifesta in vari modi, non ultimo nell’esplosione babelica dei linguaggi specialistici e settoriali della tecnica, che rendono invivibile e impraticabile la comunicazione.
3) Il soggetto che enuncia nel libro sembra non avere niente a che vedere con l’io lirico tradizionale, qual è la tua posizione in merito?
L’esplosione esponenziale dei significanti ha indotto molti a ritenere, specialmente i poeti, che il significato non esista affatto, e che la poesia debba ultimamente dedicarsi all’ostensione del cadavere del significato per il tramite della giostra inesauribile dei significanti. La poesia, anziché farsi esercizio faticoso di restituzione di un senso calato, anche soltanto in filigrana, nella biografia dell’autore, pretende un’oggettività spersonalizzata e disincarnata impossibile a raggiungersi: l’intromissione, nel fare poesia, di un travisato pensiero scientifico, mal digerito e mal frequentato soprattutto dai poeti, negando ogni metafisica ha creato cattiva metafisica e cattiva poesia.
4) quale può essere il compito di chi scrive? Quali strumenti dovrebbe possedere un poeta per scrivere?
Compito del poeta, oggi, dovrebbe quindi essere quello di farsi negatore di questa negazione, ossia negatore della ipostatizzata incapacità di restituire il senso, in poesia e in generale. È un ritorno alla ragionevolezza del dire, ché un dire le cui mosse non siano la volontà di restituire un senso, e di ammetterne a priori la possibilità, ancorché difficoltosa, si riduce alla linguistica computazionale, all’algoritmo, al divertimento; ultimamente al nichilismo. Il compito del poeta non è quello di denunciare il fallimento della parola, ma quello di opporsi, con tutti i mezzi di cui dispone, all’invincibile insufficienza della parola a restituire il senso da cui il poeta è partito e che è scaturigine stessa della parola. Diversamente, l’armamentario di significanti, strumento che dovrebbe essere volto al servizio della produzione di senso, viene degradato a divertissement puerile e fatuo: attenuandosi o scomparendo affatto il significato dall’orizzonte del parlante, i significanti, non radicando in nessuna realtà, rimandano gli uni agli altri in un gioco di rispecchiamenti e vicendevoli negazioni e conferme, da cui una deriva senza scampo nel mare dell’insignificanza. Sembrerebbe che il grado di libertà dei significanti in un tale orizzonte di deriva sia soltanto dipendente dal numero totale dei significanti, non essendo il significato da restituire ma puramente il numero di permutazioni possibile dei significanti il fattore limitante, il “collo di bottiglia” di tale processo. L’assidua frequentazione di ambiti di non stretto interesse letterario credo che sia per il poeta una fonte inesauribile di spunti e ispirazioni. Non si può creare poesia con la poesia, ci ricorda Carmelo Bene. Per questo frequentare avvedutamente la scienza, la tecnologia, la filosofia, i testi biblici e sapienziali, ecc. insomma altri ambiti della conoscenza e del pensiero umano non solo credo sia utile, ma lo ritengono addirittura indispensabile: quante volte, un testo poetico che pretende profondità non regge il confronto con la profondità di qualsivoglia pagina del salmista, dell’angelo della Slesia, dei vangeli, ma anche di autori sui generis quali Simone Weil o Carlo Michelstaedter, autori, questi, che non hanno scritto per essere letti ma la cui opera ci illumina e ci rinfranca?