“Vi scongiuro, fratelli, siate fedeli alla terra”
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
La mostra Ottone Rosai – Pittura territorio di rivolta allestita a Mantova dal 18 Gennaio al 10 Maggio 2020 presso la Casa del Mantegna a Mantova, a cura di Luigi Cavallo, mi fornisce l’occasione di ritornare sul grande pittore fiorentino e sui motivi che mi spinsero, alcuni anni orsono, ad approfondire la sua vicenda umana e artistica. Ricordo che tutto nacque dalla scoperta di Ottone Rosai nella collezione di Palazzo Ricci a Macerata. Da tempo osservavo i suoi dipinti sulle copertine dei romanzi del mio scrittore preferito, il fiorentino Vasco Pratolini, grande amico di Rosai. E in effetti l’interesse per il pittore fiorentino è scattato proprio dalla corrispondenza fra i famosi “omini” dei suoi dipinti e gli “umili” pratoliniani. Dunque ad attirarmi verso la pittura di Rosai è stata un’identità di soggetto che tuttavia rischia di sfuggire alle questioni critiche, all’impasto di colori e luce che costituiscono l’approccio più vero ad un pittore contemporaneo. Questo articolo è un tentativo di affrancarmi dai possibili equivoci sul soggetto dei dipinti rosaiani che avvicinerebbero il pittore al bozzettismo, alle macchiette di costume.
Rosai nasce a Firenze nel 1895. Al 1913 risalgono le prime opere degne di nota che risentono fortemente dell’influenza del futurismo fiorentino e milanese. Sarà il contatto con il fervido ambiente fiorentino, e in particolare con Ardengo Soffici, ad avvicinarlo alla pittura francese, al cubismo, ma dal 1919 a quel “ritorno all’ordine” che determina le grandi opere della maturità. Per comprendere le figurazioni della maturità non si può prescindere dalla ripresa dei “primitivi” toscani del ‘300 e ‘400 (su tutti Giotto e Masaccio), la cosiddetta “vena quattrocentesca”; allo stesso tempo va considerata la lezione metafisica di Giorgio Morandi e Carlo Carrà.
Dalla “vena ‘400” nasce il senso profondo dell’arte rosaiana, espressione di un “<<genio>> toscano, anzi, fiorentino” (Indro Montanelli), capace di instaurare un armonico rapporto tra arte e natura (realtà); un recupero, quello dei “primitivi” toscani, in scia col concetto di contemporaneità sviluppato dalla cultura fiorentina del primo ‘900 gravitante intorno alle tre grandi riviste (Leonardo, La Voce e Lacerba) che la caratterizzarono. Così, anche l’Estetica Futurista di Soffici risente di tutte le riflessioni sulla contemporaneità e sul rapporto tra arte e natura, alla base della “sincerità” della pittura di Rosai. Ma in essa troviamo un tramite fondamentale tra la cultura francese del secondo ‘800 (da Cézanne a Rousseau il Doganiere) e le successive teorie estetiche di Venturi intorno al primitivismo nell’arte. Riguardo all’importanza del maestro Soffici, non va tralasciato, oltre all’apporto umano e morale, l’insegnamento pittorico volto a reinterpretare originalmente il linguaggio cubista.
Di azzurro “masaccesco” s’è parlato a proposito de Il Cieco del 1932, l’opera più preziosa tra i Rosai di Palazzo Ricci a Macerata. Nella solitudine dell’”omino” nella città deserta rinveniamo la tipica malinconia del fiorentino nei primi anni ’30, gli alti palazzi, freddi e imponenti, che si stagliano sullo sfondo, con le scure finestre da cui non proviene segno di umanità.
Ai primi anni ’30 corrisponde infatti una fase assai rigogliosa della pittura di Rosai, pur segnata da un inasprirsi di quell’elemento tragico presente in tutte le figurazioni umane. Mai come ora l’umanità proposta dal pittore è desolata, abbandonata alla disperazione e al dolore senza più lottare. Ne è un esempio il Crocefisso presente nell’esaustiva esposizione mantovana, una rappresentazione lontana dall’iconografia escatologica cristiana, e ben più vicino al senso tragico della pittura nordica, da Munch ad Ensor.
Il primo a parlare della vocazione quattrocentesca di Rosai fu l’amico Aldo Palazzeschi che, per ammissione del critico Santini, riuscì con le sue fascinose immagini a definire meglio di chiunque altro l’arte del fiorentino: “Rosai è azzurro. Nessuno, secondo me, è riuscito a portare l’ azzurro fin dove è riuscito a portarlo lui. I quadri di questo pittore mi fanno pensare alle visioni paradisiache del Beato Angelico, e come quello, che dipingendo più e più volte il diavolo sicurissimo di averlo fatto terribile gli avesse dato la faccia di un angelo, le figure umili e oscure fra le vecchie case di via Toscanella o delle altre viuzze e piazzette d’Oltrarno, le mura umide e screpolate di via della Chiesa e di piazza del Carmine, sono colme e riboccanti di luce e di gioia”.
Grazie all’esempio della “Metafisica”, il processo di essenzializzazione e cristallizzazione delle forme rosaiano si rinnova. Tuttavia il fiorentino non giunge ad assumere i paradigmi del ritorno all’ordine nella maniera assoluta e categorica, nell’imperturbabilità del coetaneo emiliano Giorgio Morandi, che distilla ogni luce. I due si conoscevano, tenevano corrispondenza epistolare e li accomunava la medesima caparbietà cézanniana nel lavoro e l’attaccamento alla manualità, alla perizia artigiana del fare pittura. L’opera di Rosai si distingue, però, si caratterizza personalmente per delle imperfezioni che ne divengono la più intima sostanza. Leggiamo nei Taccuini:
“Anche Masaccio ha i suoi errori come Michelangelo, ma errori che servono a definire l’ opera d’arte”.
Le imperfezioni di cui discutiamo non sono altro che un residuo legame col reale, un voler mantenere il palpito caldo delle cose del mondo, un “compromettersi con un po’ di cervello o di cuore ” (Taccuini). Ne consegue un sovvertimento e una deformazione, da parte del pittore, dei dati oggettivi che ha di fronte a sé, sempre leggeri, mai spinti all’ eccesso.
Le figure sospese, assorte e attonite, l’impassibilità atemporale e aspaziale dei dipinti rosaiani, provengono direttamente dalla lezione metafisica, lezione di rigore etico ed estetico, morale e formale.
Il concetto di semplificazione delle figure (vedi gli “omini”) resta un attributo essenziale per l’intera esperienza della nuova pittura degli anni ‘20-’30. La descrizione del procedimento rosaiano ci consegna l’immagine di un pittore che, da un lato sottrae gli elementi del reale alla transitorietà della Natura, al suo incessante divenire (la fissità, appunto, metafisica); dall’altro asseconda un istinto creativo autonomo, quasi a parte all’autore stesso, una creazione che nel suo andamento sembra mantenere un po’ l’organicità della Natura stessa.
Quanto all’originalità e “sincerità” in Rosai, di cui tanti critici hanno parlato, esse si manifestano sicuramente in ciò che abbiamo già ricordato, il fatto di non tradire il reale, di pervenire ad una deformazione leggera, di non distruggere la natura e di non avventurarsi in sperimentazioni avanguardiste di maniera.
Si tratta di quell’equilibrio tra “museo” (cultura, arte) e “natura” (il reale), quella dialettica tanto cara al grande pilastro della pittura contemporanea quale fu Paul Cézanne.