”La ricerca della regola” nella modernità di Vittorio Gregotti

di Jonata Sabbioni

“Modernity is no longer. It belongs to the past(“La modernità non esiste più. Essa appartiene al passato”) titola enfaticamente un suo scritto, ultimamente raccolto in un saggio dal titolo “The spaziality of the city”, l’architetto tedesco Uwe Schröder. Si deve dire enfatica, una tale frase, e priva di portata innovativa poiché essa, vista nell’ottica della cultura storica dell’architettura, appare di fatto scontata. E questo poiché per la storia dell’architettura la “modernità” è sostanzialmente assimilabile al “movimento moderno” (definito anche “razionalismo”), ossia a quell’interpretazione del fare architettura – a ancora prima del pensare l’architettura – che nacque in Europa nei primi 20 anni del novecento e si sviluppò, con  applicazioni ovviamente difformi, in ogni luogo dove si potesse creare un’architettura nuova. Il movimento moderno, successivamente sin troppo semplicisticamente ricondotto, e per sempre cristallizzato, alle regole del metodo di Le Corbusier (I Cinque punti di una nuova architettura), intendeva dare corpo all’idea di un luogo architettonico funzionale, utile, sostanzialmente ripetibile. Il fine, appunto, era mettere l’architettura nelle condizioni di essere “sociale”, ossia utile alla società. Ci si convinse allora che la nuova architettura, in una specie di nuovo umanesimo, potesse appartenere alla realtà di tutti, potesse ospitare le funzioni in cui tutti trascorrevano le loro esistenze (case, fabbriche, stazioni ferroviarie, teatri, scuole), e a tutti potesse essere utile per vivere o lavorare meglio, in un luogo ben illuminato, ergonomico, elegantemente strumentale. Si pensò, insomma, che l’architettura potesse smettere di essere un ambito di distinzione sociale (architettura che, fino ad allora e con esclusione delle sole opere per le infrastrutture, era sempre stato il modus dell’affermazione delle elitè) e diventare un’”arte sociale”.

Edificio realizzato nel 1925 su progetto di uno dei principali esponenti del movimento moderno, Walter Gropius

La frase con cui questo articolo s’avvia è ovvia anche perché da quell’inizio novecento, e in un secolo di storia, l’architettura ha metabolizzato molte altre fasi. Alcune notevoli in termini di scarto culturale rispetto a cosa precedeva, altre deprecabili. La gran parte, probabilmente, irrilevanti o impercettibili. E così, oltre l’auto-referenzialità di molte mode creative e dei vari “ismi” che caratterizzano ogni storiografia – si pensi, ad esempio, al pur rilevante “decostruttivismo”, la cui nascita si stabilisce nella mostra organizzata a New York nel 1988 da Philip Johnson in cui furono esposti progetti di alcune delle archicelebrity ancora oggi più celebrate – , s’è giunti ad un oggi in cui l’ architettura di qualità, che è quella “no-name” (ossia senza griffe), s’è relegata (o auto-relegata) ai micro-interventi. Allora, l’unica verità per una buona architettonica in questi nuovi anni venti resta la vocazione a fare bene con poco, ossia a conseguire la pratica della moderazione e del buon senso. Però può succedere che anche il “fare di più con meno” diventi mantra generalista, tanto da essere il motto, ad esempio, di Stefano Boeri che viene chiamato ad esprimersi in ogni contesto e per ogni problema di questo Paese e la cui migliore idea progettuale – il celeberrimo “bosco verticale” di Milano – è, in sintesi, una torre di appartamenti con grosse vasiere ai balconi e quotazioni da diecimila euro al metro quadrato.

Vista della edificio denominato “bosco verticale” a Milano. Progetto di Stefano Boeri

Ecco, allora, che in questo momento della nostra storia così criptica e insieme ridicola servirebbe realmente un pensiero moderno e un fuoco di razionalità. Servirebbe interpretare la critica e usare il metodo della ragione. Vittorio Gregotti, morto a 92 anni pochi giorni fa a Milano anche per le conseguenze, pare, di questo maledetto coronavirus, fu sostenitore di una «spiccata passione per la ragione», come egli stesso diceva.

Vittorio Gregotti

Nato con origini lituane a Novara nel 1927, si laureò al Politecnico di Milano nel 1952 e fu docente di composizione architettonica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), ma anche a Milano e a Palermo. Per la Triennale di Milano fu responsabile della sezione introduttiva nel 1964  e dal 1974 al 1976 fu direttore delle arti visive della Biennale di Venezia, contribuendo a far nascere la Biennale Architettura. Gregoretti ha scritto, non solo di architettura, per i grandi quotidiani italiani e ha diretto le riviste ”Rassegna” e la più nobile e antica ”Casabella”. Tra le sue opere teoriche, fondamentali restano soprattutto “Il territorio dell’architettura” (1966) – in cui affronta il tema del rapporto dell’architettura con la storia, la genesi del concetto di razionalità e la delimitazione della “tradizione dei moderni” – e “La città visibile” (1991), sovvertendo il titolo calviniano, in cui auspica “un nuovo stato di equilibrio” [della realtà fisica, ndr] basato sul “riordino e chiarezza, che sono gli strumenti più importanti dell’architettura “. Nella sua carriera avrà modo di conoscere, fra gli altri, proprio Le Corbusier e Gropius, e di maturare, frequentando anche il CIAM di Londra, la sua riflessione sul Movimento Moderno e sul postmodernismo. Nel 2008 pubblicherà “Contro la fine dell’architettura”, dove denuncerà come l’architettura abbia perso il suo ruolo di contributo alle esigenze della società e sia diventata soltanto fatto estetico e di comunicazione, esercitazione autoreferenziale fine a sé stessa, espressione delle “nuove modalità di linguaggio come mera rappresentazione del globalismo finanziario compiuto”. Tra i suoi numerosi interventi progettuali si contano, per esempio, la risistemazione di Potsdamer Platz a Berlino, i progetti del Teatro degli Arcimboldi a Milano, del Gran Teatro Nazionale di Pechino e della Chiesa di San Massimiliano a Bergamo, del Palazzo Comunale ad Arezzo, del quartiere Bicocca a Milano, del bellissimo Centro Culturale Belem a Lisbona e della più modesta sede della Regione Marche ad Ancona.

Vista della corte interna del Centro Culturale di Belem, a Lisbona

Fu progettista di utopie, come nel caso della città da centomila abitanti a Pujiang, in Cina, e urbanista (a lui si deve, per esempio, il piano regolatore di Torino). Nel 1969 concepì il progetto del quartiere Zen (Zona Espansione Nord) di Palermo, di cui anni dopo Massimiliano Fuksas proporrà la demolizione.

Vista delle coperture di alcuni corpi che costituiscono il complesso del quartiere ZEN a Palermo

Gregotti ha sempre dato la responsabilità del fallimento del progetto dello Zen al fatto che non sia mai stato ultimato nelle parti dei luoghi della socialità e nelle componenti dei servizi dedicati alla convivenza. Sarebbe dovuto diventare, quel quartiere, una parte viva di città e non una periferia moribonda. ”Per lo Zen avevo previsto teatri, luoghi di lavoro, ma nulla di tutto questo venne costruito. Le periferie devono essere polifunzionali, avere un servizio unico per le città, mescolare i ceti e non confinare ceti… Palermo ha il centro storico, le espansioni otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenze, zone commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di vita che non si è mai realizzata”. Negli anni Ottanta Gregotti strinse un legame speciale con Venezia e ad allora risalgono il progetto per un quartiere per abitazioni a Cannaregio, il piano particolareggiato dell’Isola del Tronchetto e la proposta di riorganizzazione dell’intera area portuale del centro storico; progetti cui più recentemente si aggiunsero l’incarico per il nuovo Museo di Arte Contemporanea Gugghenheim alla Punta della Dogana e il progetto per la nuova Biblioteca dell’Università di Ca’ Foscari. Oltre a molti altri lavori italiani di forte valenza urbana, negli anni Ottanta e lungo tutti gli anni Novanta si sono moltiplicati anche i progetti esteri, come quelli di Istanbul, Nîmes e Aix-en-Provence, di Place de l’Etoile a Strasburgo e del Goerdelerring a Lipsia.

Nei grandi lavori, nei piani o programmi urbani, così come nei progetti di architettura – ossia nell’elaborazione di progetti che spaziano dalla scala territoriale alle singole architetture di diversa tipologia -, Gregotti inserisce il senso dell’azione positiva del costruire nella responsabilità politica dell’architetto. Il suo tendere all’”adeguatezza” in maniera sempre radicalmente non mimetica diventa, come annotava l’autorevolissimo critico ed intellettuale Manfredo Tafuri nella sua “Storia dell’architettura italiana”, la dimostrazione di una vera integrazione del nuovo segno nella storia, l’intraprendersi di un’evoluzione storica di “stratificazione guidata” (ossia sensata, motivata) e quindi generalmente utile. Questo diventa il primo carattere della modernità di Gregotti: concepire il progetto come strumento di un’azione sociale innovatrice ma responsabile. Ogni progetto, quindi, è l’applicazione di un approccio logico che il più grande storico dell’architettura moderna e contemporanea, l’americano Kenneth Frampton, in un saggio dedicato a Gregotti Associati ha chiamato ”La ricerca della regola”: la regola è da intendersi come il metodo progettuale che cerca il confronto e il dialogo con l’identità del sito, che rielabora le specifiche tradizioni edificative e insediative come problema della contestualizzazione, e che mira a una qualità progettuale che prende le distanze sia dal ”mestiere” sia dalle bizzarrie estetizzanti di molta architettura contemporanea. Ecco il secondo tratto di modernità: l’abbandono dell’auto-referenzialità dettata dalla rappresentazione del potere che s’esibisce coi suoi simboli e l’uso della cultura storica per una costruzione di identità in itinere. Sulla scorta della grande lezione di Aldo Rossi, il più rinascimentale e influente architetto italiano del secondo novecento, Gregotti comprende l’importanza della valenza storica del progettare e la valenza della monumentalità come elemento ordinatore. La “necessità monumentale” – monumental need: così la definirebbe l’avvertitissimo Beniamino Servino – diventa un requisito preferenziale nell’azione “di riordino e chiarezza” propria dell’architettura (propria del razionalismo moderno). Laddove la città dispersa crea congestioni irrazionali o derive spontaneistiche, laddove l’assenza di programmazione determina disorientamenti e alienazioni (i già famosi non-luoghi), la monumentalità, e la contestualizzazione storica, forniscono i riferimenti e (ri)creano dinamiche, relazioni, spazialità e identità. In Gregotti tutto ciò che fa l’architettura (gli alzati degli edifici o il disegno delle piante) assume il rigore della geometria di impianto razional-matematico e il solo linguaggio logico utile, come anche nel progettare il segno urbano, avanza per assi e linee di forza nette; in definitiva: per decisioni regolatrici.

Un tributo a Vittorio Gregotti serve, oltre che per ricordare un importante intellettuale italiano scomparso in un periodo tra i più cupi degli ultimi decenni, anche per affermare, come hanno fatto autorevoli storici dell’architettura quali Joseph Rykwert e Werner Oechslin, il significato e il valore di una visione culturale “integrale”, ben più ampia della applicazione alla sola disciplina architettonica. Valgano allora, queste poche annotazioni, a rimarcare come Gregotti possa certamente dirsi moderno nel senso più reale e anacronistico della definizione e come, seppur la modernità sia trascorsa (con risultati ambigui, a volte, oppure nefasti), la sua lezione dovrà essere ricordata come esempio attuale del miglior umanesimo europeo.

 

__________________________

Jonata Sabbioni (foto di R. Frolloni)

Jonata Sabbioni (1985) è ingegnere edile e architetto. In ambito poetico, ha esordito con il libro Al suo vero nome (L’Arcolaio, 2010 – introduzione di F. Davoli), cui ha fatto seguito Riconoscenze (L’Arcolaio, 2015). Redattore di “Nuova Ciminiera” nonché della Radio on web “Radio Incredibile”, scrive o ha scritto per altri spazi online di approfondimento culturale. E’ membro di associazioni di cooperazione sociale ed ambientaliste. Si occupa di promuovere la cultura poetica e la poesia attraverso iniziative pubbliche di approfondimento e di lettura. E’ in corso di stampa il suo terzo libro di versi.

Back to Top