Il 14 marzo scorso avrebbe compiuto 59 anni, se un destino differente non l’avesse prematuramente chiamato Altrove tredici anni fa. Ricordiamo la sua figura di poeta, di critico, di teorico della poesia, ma anche di docente, e di infaticabile operatore culturale e sociale, attraverso i suoi laboratori di scrittura e di lettura, i convegni, gli incontri, l’intuizione rapidissima – e in anticipo su tutti noi – di quanto si sarebbe rivelato utile l’utilizzo di internet per le cose della poesia. Personalmente, ne ricordo le giornate di luce e di pace presso la sua casa, le chiacchierate intense sul senso della vita, su ciò che può ancora – e deve ancora – dirsi umano; e su ciò che trascendendo l’umano ancor più rende senso e luce all’umano. Sul rapporto tra poesia e verità. Ed anche la bella semplicità di una riunione tra amici davanti a una tavola imbandita. Perché per lui l’altro (e sopratttto l’Altro) era il punto in cui la Storia si snoda e si riannoda, si dipana e si ricompone, ci invita ad uscire da noi stessi per poter poi più compiutamente rientrare in noi stessi, ed anche intorno noi stessi.
Ne parlano anche Angela Bianchi e Cesare Catà, nell’introduzione che dedicano alla sua opera poetica completa, pubblicata da Italic Pequod nel 2017 (ndr.: Antonio Santori, L’opera poetica. La pagina bianca del possibile e del necessario, Italic Pequod 2017, pagg. 432, € 22,00). Scrivono, in prefazione:
Antonio Santori ci consegna in queste pagine l’intento programmatico della sua scrittura poetica, tutta rivolta all’Altro, interlocutore d’eccezione ed esseza vera del suo dialogare, alla continua ricerca di quella “parola giusta” quale “estensione del logos in un senso non più solamente teorico ma anche sociale, politico, umano, fondato cioè sulla solidarietà sociale” (Santori) e che rappresenta sempre “la domanda”. L’intera vita di Santori è stata una domanda, un dialogo, un dono.
Ci piace onorarlo (e ricordarlo), in questi giorni strani e a tratti stranianti che ci vedono tutti in isolamento, quasi in clausura, con l’auspicio che di essi ci rimanga – oltre la salute, per la quale osserviamo la necessaria reclusione – una curiosità più fondata e fondante sulla vita.
Lo facciamo con tre suoi testi che non abbiamo mai dimenticato. Né lo potremmo.
da La linea alba (2007)
. Non cercavo la fine, non era la morte
l’improvvisa atmosfera, cercavo la ciurma rarefatta
e il vento della creazione, il niente che si scopre
dietro la vita, dietro l’amore.
Perché ci sono spazi enormi da riempire
che sono spazi da inghiottire.
Ci sono luoghi che dormono,
come strumenti in attesa dentro le casse,
luoghi di carne, di mascelle spalancate,
luoghi di sgomenti e di resa, luoghi dell’amore.
Ma sempre, sempre, dietro gli occhi di ognuno
ci sono gli occhi di un altro che guardano la fine:
le nasse ammonticchiate, prossime al sussulto,
lo stupore dentro l’acqua delle ostriche
invasate dalla luce, nostro identico culto
sotto le stelle.
Perché ci sono occhi da respingere
che sono occhi da accogliere.
Ci sono volti che nascono sotto i nostri corpi
*
. La linea alba, la pagina bianca del possibile
e del necessario davvero non è un problema
di libri e di registri, dove contare le assenze
e le presenze, è il timone a sopravvento che conduce
verso le balene ubbidienti alla voce del Signore,
ascoltando il ritmo del cuore intendo aldilà
la resurrezione o la discesa negli inferi eterna,
è trasformarsi nella ripetizione divenire restando
fermi, mantenendo i passi nell’animale labirinto,
il più grande animale della creazione,
senza dubbio non è un problema di fine
quadrimestre, di insufficienti valutazioni
e di impreparazioni, un problema di universali
ripetenze, è raccogliere il buio d’inchiostro
**
da Saltata (1996; 2000)
Vedi, qui tutto è già accaduto.
Gli uomini stanno provando
a rilassarsi. Il giorno ha gli occhi
aperti e il sole è un istante.
Fa stare tutti zitti.
Come se davvero non esistessi.
Vedi, anche tu sei distante
e involuto. Irritante, mentre
firmi il tuo patto. Come se
non mi vedessi, come se io
fossi la notte, esatta e perversa,
introversa, come l’unghia del gatto.
Vedi, tutte le parole vivono
ormai lo sfratto, come se
davvero non esistessi, come se
mai avessimo avuto un senso
e qualcuno da sempre
provasse a contarci
(D’un tratto penso
che se riuscissi a emergere
diventerei pulsante.
Prova a pensarci. Avresti
due cuori. Come tua madre
prima che tu nascessi).