“La stella che sorge dal mare”: poesia e persuasione in Carlo Michelstaedter

di Luca Campana

Nell’ambito della cultura italiana del Novecento quello di Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910) rappresenta un caso unico di rimozione postuma e di progressivo recupero, un recupero al quale a partire dagli anni ’70 sono seguiti studi, edizioni, riedizioni e traduzioni in varie lingue. Ciò non sorprende, considerando quanto scomodo e disturbante potesse apparire il messaggio del geniale Goriziano nell’ambito del sistema culturale della prima metà del secolo.

In un modo del tutto originale e appartato, lontano delle accademie, vicino semmai alla necessità e all’urgenza delle avanguardie, Michelstaedter riflette sui temi dell’ontologia classica, in un autentico e serrato faccia a faccia con il pensiero delle origini, con Platone, Aristotele e soprattutto con i Presocratici: in anticipo di cinquant’anni rispetto a tendenze ermeneutiche che in Italia iniziano ad affermarsi soltanto nella seconda metà del secolo, egli trova in Parmenide, Eraclito, Empedocle e nel Socrate platonico il vertice della cultura occidentale, il momento apicale, lo zenit  di una verità che è stata in seguito sistematicamente eclissata, ma che a tratti, come un fiume carsico che imprevedibilmente torna a mostrarsi, è riecheggiata dalle parole di Cristo, Buddha, Petrarca, Leopardi, Tolstoj, Ibsen, nella musica di Beethoven e Pergolesi.

Ciò che rende davvero unica la sua riflessione è l’irriducibile e mai pacificato sforzo volto a colmare la distanza che separa teoria e pratica o, per usare un’espressione che Michelstaedter riprende dal Vangelo di Giovanni, il “farsi carne” del Verbo: in questo consiste la Persuasione, la sola possibilità di conferire un significato al vivere all’interno di una civiltà i cui valori fondanti apparivano al giovane del tutto consunti, frutto ormai marcito di un’inconsistenza che Carlo chiama Retorica. La poesia diventa allora un modo per esprimere la sua progressiva elaborazione concettuale, un linguaggio diverso, più denso, e soprattutto libero da qualsiasi “intromissione” esterna rispetto a quello filosofico (La persuasione e la rettorica, l’opera più celebre del Goriziano, nasce infatti come una tesi di laurea), ma che di esso si alimenta costantemente: si parla infatti, come nel caso di Leopardi, di pensiero poetante. Nello spazio dei dieci mesi che precedono il suicidio la poesia di Michelstaedter conosce un evidente sviluppo quantitativo e qualitativo. Delle trentadue poesie presenti nella definitiva raccolta postuma ventidue vengono alla luce in questo periodo. L’intero cammino è definito da Carlo attraverso una massima greca: di’ energheías es arghían, dall’inquietudine alla quiete, vale a dire dalla Retorica alla Persuasione.

Si tratta di un percorso intrapreso e radicalmente vissuto, parola per parola, verso dopo verso:

Carlo Michelstaedter

assistiamo così al compimento del linguaggio michelstaedteriano, al suo passaggio dal tono idillico di ascendenza leopardiana e petrarchesca all’estrema trasfigurazione mitica, nella discesa orfico-cristologica agli inferi di una redentiva profondità marina. Attraverso una serie di suggestioni, che provengono dal simbolismo protocristiano, da Ibsen, ma anche dal paesaggio istriano, l’immagine del mare si carica infatti di una valenza altra, alternativa e salvifica rispetto al deserto della terra.  L’acme di queste poesie sta ne I figli del mare, in cui Michelstaedter realizza una nascente mitologia del mare, nella forma di un poema che evoca il passato senza tempo in cui si svolge la vicenda delle prime divinità marine, i principi della Persuasione, Itti e Senia.

Sorprendente è soprattutto la maturazione del linguaggio, pervaso da una musicalità solenne, cadenzata dall’uso costante dell’anafora, che fornisce alle strofe una tonalità religiosa e litànica, dalla sintassi piana, elementare, quasi esclusivamente paratattica, percorsa dalle continue rifrazioni sonore delle assonanze, delle consonanze e delle rime libere, che formano una eco persistente, crescente ad ogni verso. È questa la voce dell’altro mare, un mare di pura interiorità, la voce di un amore diverso, ignoto, che non si rivela all’intelletto ma che, come un sapere mistico, parla all’anima condotta lontano dagli uomini e fa vibrare le profondità del cuore. Il paesaggio nel quale avviene la rivelazione, la sponda marina, perde ogni connotazione realistica o idillica, per assumere il valore puramente simbolico di paesaggio-limite, confinante con la rivelativa realtà trascendente intuita. Dunque una poesia che al suo culmine lambisce l’estasi e il silenzio. Purtroppo il suo autore finì di lì a poco i suoi giorni, togliendosi la vita, vittima di un malessere interiore che nel corso di poco tempo era cresciuto in lui, inesorabile, e aveva logorato i nervi e il corpo. Restano i versi, insieme agli autoritratti dell’ultimo periodo, a testimoniare l’altezza straordinaria raggiunta da Carlo nell’arco accecante della sua brevissima e abissale parabola.

 

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Luca Campana è nato in provincia di Fermo. Ha studiato Lettere a Macerata e Filosofia a Padova. Dal 2006 lavora come insegnante di lingua e letteratura italiana e latina tra le province di Mantova, Macerata e Ancona, in diversi ordini di scuola. Attualmente vive ad Ascoli Piceno, dove insegna materie letterarie presso il liceo Stabili Trebbiani. Autore di poesie e articoli apparsi su varie riviste, si ricorda il saggio La stella che sorge dal mare. Un’interpretazione di Carlo Michelstaedter (Il poligrafo, Padova, 2019).

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