C’è un vecchio romanzo di Gian Ruggero Manzoni, qualche anno fa ripubblicato in e-book per Quondam, che continua ad appassionarmi. Navigando ho scoperto che era riapparso nella nuova veste che dico sopra, e sono corso a cercarmelo nello scaffale dei libri più amati nel formato cartaceo edito in prima battuta da Diabasis.
Si intitola Il morbo. E’ un romanzo storico. E romanzo delle domande fondamentali. Vero l’episodio di cui narra, veri i protagonisti, che Manzoni rianima e serra nella stanza di una povera casa di Rio De Janeiro, nella quale Luigi Compagnoni, rivoluzionario mazziniano, colpito dalla peste, si prepara a morire. Rianima e serra: un’unica scena per la rappresentazione di questo romanzo. Con pochissimi personaggi e qualche protagonista nell’ombra: la morte, che si avvicina; la memoria, che aleggia; il linguaggio (sia delle parole che delle azioni), che tutti mette in relazione; la scrittura, che sigilla e si fa memoriale.
Diremmo quasi che questi ultimi sono i veri protagonisti di una storia che, altrimenti, avevano già raccontato, con la stringente ed esaustiva dovizia che sono loro propri, il destino umano e la storia. Il pretesto di una vicenda romagnola e italiana, come quella del Compagnoni, diviene – nelle pagine di Manzoni – un pro-testo, un’apologia della parola e della scrittura, intensa e drammatica, incisiva e anche decisiva, fluente e rapida quanto poetica (e utilizzo il termine “poetica” per sottolineare che molto presente è, in queste pagine, l’esperienza del Manzoni poeta, così come per chiarire una volta di più una categoria della poesia che reputo fondamentale: quella, cioè, che nel verso coglie l’essenza e non solo l’esistenza dell’uomo; un “farsi” delle cose che smaschera, più che accarezzare, il senso profondo della vita), come afferma il Compagnoni, a pag.55:
Scrivi, frate, che la peste rende uomini a oltranza, e nella peste ci si riscopre più forti. Sono gli attimi sul limite che provano ciò che siamo in realtà, che svelano quel che voi sacerdoti chiamate dogmi o misteri. E la loro verità. E la verità di ognuno.
C’è tutta una corrente di poeti italiani del secondo Novecento, non codificata ma non per questo non verificabile, che ha
superato nella pratica le strettezze (e, in taluni casi, le strettoie) del postmoderno in narrativa e della “morte della poesia”, ritrovando – nella “rinnovata attenzione per la parola che si lega alle cose” e nel “recupero della tradizione dei maestri, così come in “un senso forte del ritmo e della compostezza, in “un’adesione franca alla concretezza del vivere e alle piccole cose”, e infine in “una capacità di rendere narrativa anche una parola simbolica come quella della poesia e in un sincero pudore nei riguardi della scrittura” (ne avevamo scritto nel numero 1 della rivista “Ciminiera”, a mo’ di biglietto da visita) – il valore dell’ascolto e l’attendibilità della parola, ben oltre le sperimentazioni anarcoidi esercitate sulla sola forma, e semmai, piuttosto, in una concezione anarchica dello scavo di sé, oltre le ideologie, perché dal certo di un buio o di un antro tornasse a farsi carne una voce, per quanto piccola e apparentemente insignificante.
Non va dimenticato che Gian Ruggero Manzoni è anche poeta (ha cioè entrambe le corde: quella della narrazione e quella del verso); tuttavia, a me pare fortemente unitario l’approccio; e l’evidenza che, comunque, quello della scrittura rappresenta in lui un medium, un’occasione feconda di ricognizione, sia che avvenga per un ciclo di pitture, sia che trovi origine da un avvenimento storico romagnolo, calato dentro la semplicità atemporale e universale della cronaca (come avviene, appunto, ne Il morbo). A pag.77, per bocca del Compagnoni, Manzoni scrive infatti:
Anch’io della morte ho avuto il terrore, perché ho temuto di perdere tempo. Ora la peste ci libera entrambi dal tempo e dalla morte, e finalmente possiamo darci una sosta, per parlare.
Paradossalmente, la sosta si dà nel momento in cui la morte preme maggiormente e più alto è il rischio di non riuscire a completare la confessione; si tratta però di un paradosso che non è tale se, come realmente è, la parola (e la parola poetica, ossia legata alla vita e al suo farsi) cattura l’essenza delle cose e le trasfigura; le inchioda su una lapide di carta per eternarle; le ruba al tempo, grazie ad un atto d’amore che si manifesta per l’incontro tra un ascolto e una donazione, mirabilmente dissimulato nel romanzo, nella metafora che divengono fra Martin (l’ascoltatore) e il Compagnoni (il donante):
perché l’amore (…) tiene in vita la vita più che può, e le dà senso.
Nella stanza ci sono – ognuno con il proprio “vestito” e parimenti con la propria “nudità” – uomini e animali, portati dal fiume in piena di questa parola così concepita, e al contempo fermi ognuno nel proprio punto luce.
Efficace ossimoro che l’autore governa con sapienza e lungimiranza. La staticità dei personaggi, ognuno nel proprio luogo deputato, diviene sigillo del martirio che si fa martyrion: un memoriale, appunto. Ossia, non un semplice ricordo, ma un momento che modifica ciò che verrà, che si pone come fondamento dell’avvenuto e rilancio nell’avvenire.
Vorrei spendere una parola sulla “fissità laboriosa”. Che non è segnale di rassegnazione o sconfitta, bensì prodromo a una modificazione delle posizioni, e dunque modello di un atteggiamento antico e nuovo (cioè né postmoderno né moderno; o, in poesia, né neoavanguardista né minimalista): l’atteggiamento di chi sta in silenzio per ascoltare; e soprattutto di chi, ascoltando, si lascia dire dentro; l’atteggiamento di chi, nel laboratorio della ciminiera, sceglie di sparire perché in alto appaia il fumo del suo lavoro di ascolto.
Il fumo della scrittura diviene allora anche un’arma potente per resistere all’assalto della morte, come scrive fra Martin (pag.43):
Il fetore di escrementi è insopportabile. Comunque il mio respiro e il respiro del moribondo vibrano alla pari. Respiro con lui… Sto reggendo i suoi colpi, ma ciò sarebbe impossibile, se la scrittura non mi venisse in ausilio.
La scrittura, ossia l’ossatura cava in cui circola una linfa vitale e respirante da cui si origina la voce (sempre illuminante la Filosofia della musica di Giovanni Piana); voce come vita, sia pure quella terminale del Compagnoni, così come quella giocata fino in fono in nome della missionarietà, e anche messa a dura prova dalla portata di quell’esperienza, di fra Martin. Perché sempre, sembra suggerirci Manzoni, la scrittura che non si sottrae alla propria funzione, è non solo evocativa ma anche scomodante e provocatoria.
E come Jolanda, la creola amata dal Compagnoni, sale e scende le scale della casa, per muoversi dagli ambienti della vita (la misera cucina, la porta che apre all’esterno) a quelli del mistero del dolore (la camera da letto del moribondo), Felicita, il pappagallo che si è affezionato al Compagnoni e non lo lascia mai, si muove in orizzontale per la stanza, fino a quando – alla morte del rivoluzionario – esce dalla finestra e sparisce fuori. Metafora d’appoggio formidabile, questa di Felicita, per accompagnare ciò che sta avvenendo nella stanza, oltre le apparenze di un letto – in cui un uomo muore – e di un tavolaccio – dove un frate trascrive le memorie del moribondo – . Felicita è la domanda profonda sul senso della vita, come in un parallelo midrash rintracciabile nel Catechismo della Chiesa olandese, in cui – al re che chiede insistentemente il senso dell’esistenza umana su questa terra – risponde un uccellino che entra nella reggia, effettua quattro o cinque volteggi nella sala del trono, e quindi torna fuori nel buio dell’inverno. E parimenti, Felicita è la cruda semplicità di quella domanda, ferma nella stanza, in tutta la sua innocenza e solidità, come anche nei suoi infiniti labirinti (pag.47):
I due uomini, calati negli abissi dell’animo, svelavano sempre nuovi abissi, varianti e cunicoli, dove perdersi e dove ritrovarsi.
Sembra non poter essere solo un caso che la buona e fedele Jolanda, la taciturna Jolanda, muore anch’essa di peste ma al piano inferiore della casa, in solitudine, in quegli ambienti della vita (come dicevo prima) che, alla luce della sua morte, divengono piuttosto gli ambienti della sopravvivenza temporanea: gli ambienti del corpo. A differenza degli ambienti dello spirito (il respiro) e della carne (la parola che si incide sulla carta) al piano superiore.
Ecco, a me pare che tutto Il morbo, nella sua ricchissima affabulazione (che impedisce qualunque distrazione del lettore e, mentre lo porta per gli accadimenti di un periodo turbolento della nostra storia patria e non solo, lo mette al contempo di fronte a se stesso, proprio in quanto pone come su uno specchio l’umanità e il suo rovello migliore), a me pare che Il morbo voglia piuttosto costringere lo stesso lettore, più o meno implicato, a fare silenzio dentro di sé e quasi a scorporare, dal flusso di coscienza vigoroso che l’autore gli dipana davanti agli occhi negli scarni discorsi diretti e più ancora nella forza gnomica di quelli indiretti, a fare il punto sulla vita; a prendersi di peso; a guardare oltre, se non senza paura, almeno con più coraggio e desiderio della verità, come a pag.146 asserisce fra Martin, quando ormai il monaco ha rotto le comprensibili resistenze a star vicino all’appestato, non tanto e non solo in forza del proprio credo, quanto in nome dell’umanità che fa incontrare gli uomini e li fa riconoscere gli uni parte degli altri:
Ora posso dirmi anche frate dei rifiuti umani e e dei rifiuti dell’umanità; ma se il mondo scorderà cos’è la passione, si trasformerà in un gigantesco letamaio privo di carità.