Premessa
Le tesi sostenute in questo articolo sono maturate durante la stesura dell’antologia Poeti neodialettali marchigiani (Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche, anno XXIII, n. 263, ottobre 2018, pp. 372), che il sottoscritto ha curato insieme a Fabio Maria Serpilli (Associazione Culturale “Versante”) e nella quale sono confluiti letture, documenti e ogni altro tipo di materiale e risorsa legati a questa esperienza, accumulati dallo stesso Serpilli nel corso di una vita dedicata alla poesia.
Riflessioni sulla poesia dialettale
In occasione delle presentazioni effettuate in giro per le Marche è spesso capitato, nonostante premesse teoriche solide e puntuali, sebbene divulgative, che relazionando sulla poesia neodialettale un tale seduto in mezzo al pubblico si alzasse e prendesse la parola, oppure che alla fine dei lavori si avvicinasse e, in entrambi i casi, affermasse di non aver capito di cosa si stesse parlando. Probabilmente costoro erano avvezzi a subire salassi di risate da commedie dialettali o filastrocche declamate nelle piazze. Magari avevano in mente qualche satira di Trilussa, nel caso la curiosità li avesse spinti a capire chi fosse quel tale a cui è intitolata la piazzetta di Trastevere dove si passeggia e si fanno gli apericena. È possibile che qualcuno conoscesse un paio di sonetti del Belli e del Porta, se qualcuno gliene avesse mai parlato di striscio a scuola. Allora si cercava di spiegare alacremente che neodialetto significa nuovo dialetto e che la poesia neodialettale è la poesia che si fa con questo nuovo dialetto. Al che molti si avvalevano di argomentazioni tipiche di un discutibile retaggio per dimostrare che il dialetto ha ben altri scopi: rivangare il tempo perduto dei ricordi, degli avi, delle mitologie rurali, dei bozzetti e delle macchiette, del realismo comico e della quotidianità spicciola.
Con ciò non si intende contestare il grado di approfondimento al tema trattato, piuttosto un atteggiamento, divenuto una predisposizione sedimentata, relativa ai pregiudizi verso la poesia dialettale, come se questa non fosse degna di essere chiamata in tal modo. Invero tra tanti di questi detrattori della poesia dialettale ci sono spesso persone preparate, a loro volta aspiranti poeti, che avvertono subito la puzza sotto al naso e lo storcono similmente a taluni estemporanei, o peggio, consapevoli e convinti critici addetti ai lavori che liquidano il dialetto come lingua minore, addirittura ignorante, indegna di letterarietà e utile solo a rappresentare bassi e facili umori sentimentalistici e ridanciani. Di conseguenza, constatata la progressiva scomparsa del lessico e delle strutture sintattiche caratteristiche della parlata dei nostri antenati, diversi sostengono che il dialetto stia lentamente morendo. Possibile dargli torto? Dopotutto nel corso del Novecento, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, il dialetto non è stato più esclusivamente d’uso popolare per l’assottigliamento dei divari sociali. La diffusione della scolarizzazione di massa ha infatti causato la nascita di fenomeni di bilinguismo, spesso di veri e propri idioletti e senza dubbio di una qualche forma di ibridazione del dialetto con la lingua italiana. In precedenza, al contrario, a causa dell’analfabetismo, chi parlava in dialetto non conosceva l’italiano. Quindi è auspicabile, persino doveroso, riesumare e conservare il vecchio dialetto, quello puro e verace, operazione per la quale forse sarebbe più consono pensare a un lavoro mirato, scientifico, simile a quello svolto in un altro contesto, per intenderci, dai fratelli Grimm. Dopotutto neppure la poesia neodialettale disdegna del recupero di stilemi tradizionali, ci mancherebbe altro, tuttavia è inevitabile confrontarsi con la realtà e i suoi cambiamenti, che dipendono dall’adattamento del dialetto, nonché dell’italiano, in quanto lingue vive, ai mutamenti storico-sociali. Perciò non è possibile esprimere concetti moderni utilizzando le parole di un tempo: come adattare, ad esempio, un concetto astratto al concreto, terragno, vecchio dialetto? È impossibile, nonché anacronistico, credere che i nostri genitori parlino al modo dei nostri nonni, i nostri nonni al modo dei nostri bisnonni e via discorrendo.
La ricca seppur tormentata storia della nostra lingua italiana – delle lingue, a questo punto, tornando a ritroso fino ai volgari, fino a Bembo e alla prima Accademia della Crusca – ha determinato lo sviluppo collaterale di una rosa di dialetti con la loro degna letteratura, spesso etichettata, senza opportune distinzioni, come puramente goliardica. In tal senso, sebbene il cosiddetto “grande stile” sia appunto grande, non possiamo negare la qualità dei risultati raggiunti nel passato dagli antipetrarchisti e da molti di coloro che hanno deviato dal canone. Si pensi a Burchiello, alla poesia maccheronica di Teofilo Folengo, ai tormenti del Tasso e ai Manieristi, a tutto il Seicento Barocco, tra cui la prosa di Giambattista Basile, ma anche al francese Rabelais, che da umanista anti-classicista e anti-rinascimentale rifiutò la lirica petrarchista e l’epica cavalleresca. Certo, da loro ci dividono parecchi secoli, c’è stata un’evoluzione, ma va recuperata: è fondamentale contestualizzare, senza rifiutare nulla, tranne che la non-poesia. Va rispettato ogni degno e onesto tentativo di lavorare sul linguaggio e nel linguaggio, come tra l’altro avviene in ogni poeta in lingua, altrimenti avremmo solo copie e copie di copie, all’infinito. L’unico limite che è necessario porsi è quello dello studio, della riflessione e del recupero della tradizione, che però ogni scrittore ha il compito di rinnovare. D’altronde a metà Novecento anche Montale lamentava un esaurimento del linguaggio poetico italiano, che di lì a poco avrebbe portato alle sperimentazioni della Neoavanguardia, mentre allora il dialetto non aveva ancora mostrato tutte le sue possibilità espressive.
Per questo motivo il poeta neodialettale ha la facoltà di riformulare le realtà anche per mezzo del dialetto, che cambia e si evolve, di innovare e inventare sfruttando le potenzialità latenti di questa lingua madre senza tradire la tradizione. Forse la domanda più pertinente da porsi in questo momento, seguendo un ragionamento di Fabio Maria Serpilli, non sarebbe tanto se il dialetto stia veramente morendo, ma quale dialetto sia possibile oggi. Purtroppo o per fortuna? È necessario sospendere il giudizio e fare i conti con la realtà, perché d’altro canto nessuno usa più neppure l’italiano di un secolo fa e ci scandalizzeremmo se accadesse l’opposto.
La poesia neodialettale
Come testimonia un articolo sul triestino Virgilio Giotti apparso sul «Corriere della Sera» del 22 dicembre 1937, Pietro
Pancrazi fu il primo ad accorgersi che qualcosa stava cambiando nell’usuale approccio alla composizione dialettale e pertanto distinse la poesia dialettale da quella in dialetto affermando che «la prima il suo nutrimento maggiore lo trova in atteggiamenti e sentimenti connessi al colore esterno e all’ambiente delle parole che usa», la seconda invece «non accetta il folclore e al dialetto chiede soltanto l’espressione e il suono, la qualità intima che si richiede a ogni altra lingua». Pancrazi capì che la poesia dialettale non si basa unicamente sul folklore popolare e già riconosceva un maestro, come altri nel corso del Novecento e oltre: Delio Tessa, Biagio Marin, Giacomo Noventa, Albino Pierro, Amedeo Giacomini, Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Padretti, Tolmino Baldassarri, Franco Scataglini, Leonardo Mancino, Gabriele Ghiandoni, Franco Loi, Pierluigi Cappello.
Il concetto di poesia neodialettale vanta un’autorevole storicizzazione: sviluppato da Pier Paolo Pasolini e Mario Dell’Arco in Poesia dialettale del Novecento (Guanda, 1952), si è consolidato nel corso del Novecento, quando Gianfranco Contini e Pier Vincenzo Mengaldo, rispettivamente in Letteratura dell’Italia unita (Sansoni, 1968) e in Poeti italiani del Novecento (Mondadori, 1978), hanno antologizzato per la prima volta poeti in dialetto accanto a poeti in lingua, senza distinguere gli uni dagli altri e prendendo una netta posizione. Nel 1987 Franco Brevini ha poi suggellato le intuizioni pasoliniane pubblicando Poeti dialettali del Novecento (Einaudi), finora probabilmente la più matura e completa raccolta di poesia neodialettale italiana.
Nel dizionario Treccani peraltro il termine “neodialettale” trova una precisa valenza semantica: «Chi o che ripropone l’uso del dialetto, anche come forma di espressione poetica». Risulta quindi inappropriato ragionare sul codice; bisogna piuttosto concentrarsi sulla poesia in sé, su cosa lo sia o non lo sia.
Ai piani alti non sono mancate però le diatribe: Achille Serrao (La poesia neodialettale: una realtà letteraria ineludibile, www.achilleserrao.it) ha dimostrato la superficialità di certi vezzi critici che tuttora sostengono l’insindacabile superiorità, per impegno profuso, complessità e mera qualità, della linea petrarchista sulla versificazione dialettale, senza accettare l’evidenza che ormai anche quest’ultima abbia maturato un approccio sostanzialmente colto e meditato. Contro la rigida posizione di Silvio Ramat in Storia della poesia del Novecento (Mursia, 1982) non sono mancate di recente, sottolinea ancora Serrao, antologie come Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo a cura di Alberto Asor Rosa (Einaudi) e Storia delle letteratura italiana a cura di Enrico Malato (Salerno), entrambe del 2000, che hanno comprovato la qualità della nuova poesia dialettale.
Vale la pena ricordare che particolare attenzione viene dedicata da anni al dialetto da concorsi letterari quali il Premio “Poesia Onesta”, il Premio “Ischitella-Pietro Giannone” e il Premio “Giuseppe Malattia della Vallata”. Case editrici come Quodlibet lavorano sulla riscoperta di grandi autori, tra cui Franco Scataglini, di cui sta uscendo un’opera omnia nella collana Ardilut curata da Giorgio Agamben, altre come Puntoacapo e Cofine pubblicano dialettali contemporanei. Su «Doppiozero» lo stesso Agamben (si veda Il bilinguismo della poesia) e Umberto Fiori (si veda La lingua doppia della poesia) dialogano sull’argomento e pure convengono sul valore della letteratura neodialettale.
Conclusioni
Come recita emblematicamente il titolo di un lavoro di Mario Chiesa e Giovanni Tesio il dialetto da lingua della realtà è diventato lingua della poesia. Per supportare nei fatti questa tesi è possibile passare in rassegna i nomi eccellenti già citati. L’eredità dei grandi maestri è stata oggi raccolta da numerosi scrittori, anche giovani, per i quali si rimanda alla mappatura, che ormai a distanza di cinque anni potrebbe risultare parziale, effettuata nel 2014 da Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Giuseppe Nava, Rossella Renzi e Christian Sinicco ne L’Italia a pezzi. Antologia di poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila (Gwynplaine, coll. Argo).
Il neodialetto si serve degli strumenti e delle categorie culturali appartenenti alla poesia che, pur tra impedimenti vari e chiusure residue, stanno permettendo di superare la secolare convinzione in base alla quale un codice linguistico di minoranza non meriti l’attenzione riservata a una qualsiasi lingua nazionale. Per cui contestualmente vale la pena ribadire che anche se è importante salvaguardare la tradizione, i dialetti non vivono solo in funzione della memoria e dell’utilizzo quotidiano, ma anche del fine poetico.