[Voci dall’inizio è la rubrica che Gianluca D’Andrea cura per Nuova Ciminiera]
da Scurau, in Ultima Vox:
*
Corpi cavi enormi, gonne e questi figli come squarcio.
Crolla la religione, Meroè, di chi conosce il tormento
di giocare fino al buco dell’abisso; lo sgravo che ricordi
gli spruzzi di merda sul lenzuolo e dentro l’amigdala
appena lavati macelli, vene scure, osiamo dire:
Cattedrale vuota l’ulivo schiacciato contro il greto
i rami le foglie lo schianto lo scantu della scorza
materna sul petto. Matriarcato dei giochi l’ikea
i segni, questi, del nuovo potere; parola della madre.
Sì, siamo la madre. La morte la morte. La morte.
*
Si muove da sopra il grosso nodo dei cavi si impietra nei grovigli.
Sporge come massa tutta fotolitica, il velo o in alto il pendio,
lo stesso bosco. Qualcosa si affaccia alla lente, spolpa tra i ceppi
l’erba buia della tela. È nascosta la camera, ma già sente il taglio
del montaggio e questi notturni emersi alla fine della luce. Li trova:
il primo nel passo, l’altro incollato nel mezzo, il terzo, come penoso,
immobile e curvo. Una donna, tra loro, di certo quella in fondo
più segreta fra i corpi incastrati tra mondo e nuovomondo,
qui tornati per correggere.
056F 07: appare sul sotto, scritto sulla terra sul fradicio di foglie.
Così l’ombra appena violata smuove cadaveri d’ibisco, cespi vicino
all’incastro dei fili e vergogna per questa sua tenebra, per il lampo
lanciato dalla macchina, che tiene dentro tempo e nuovo tempo
l’orrore anche della carne.
Inedito:
Fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare:
un figlio chiede al padre di un’auto crollata nel vallone.
Si dovrebbero lasciare, mentre insieme guardano la televisione
dal divano. Lei lunga distesa, il suo collo e ciò che precipita
insieme a noi e alla Terra e si fa freddo mistero.
In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno
come fossero statue di rettile nel diorama. Diranno si amavano,
guarda, lei ancora tiene la testa poggiata sulla spalla.
Non hanno sentito nulla dal globo durante il lungo crollo
(mesi, anni), è stato come spegnere tutto, un velo, un tuono.
Entrarci ancora vivi, dentro il nero.
Una voce forte emerge dai testi di Giuseppe Nibali e fortemente connaturata a un sostrato primigenio. La scaturigine materica traluce e si traduce a tratti in un espressivismo lancinante (“i rami le foglie lo schianto lo scantu della scorza / materna sul petto“), altre volte in un vero e proprio “espressionismo” linguistico (“gli spruzzi di merda sul lenzuolo e dentro l’amigdala / appena lavati macelli”). Tutto evidenzia una necessità etica: il linguaggio aggredisce la pagina, il mondo, il tempo – com’è esplicito nel secondo testo ed evidenziato nel martellamento epanalettico con variazione (“tra mondo e nuovomondo”; “dentro tempo e nuovo tempo”) – in uno slancio agonistico che non si arrende alla fine.
Di più: tutta questa poesia è nell’agone, e scommette se stessa sull’orlo di una possibile scomparsa. Il contrasto è avvertibile nell’impiego, soprattutto nell’inedito, dei due piani o registri linguistici, per cui a una colloquialità mai banale (quasi una “quotidianità”), si alterna l’accensione metaforica che ravviva il contesto. Ed è questa stessa vitalità metaforica, a mio avviso, la novità di questi testi, cioè la capacità di “entrare ancora vivi, dentro il nero”, affrontando il cambiamento, rischiando l’inaudito che, appunto, l’apparato di metafore supporta.
La necessità etica di cui abbiamo detto è riassumibile nella speranza (è ancora lo splendido inedito a suggerirlo) che una possibilità di riscatto sia presente nella trasmissione e nella relazione, quindi, che il linguaggio può, e a questo punto deve, intrattenere col mondo: “Fanno spavento le cose del mondo e si dovrebbero lasciare”. Eppure, ed è un grappolo di metafore ardue a illustrarlo (“In futuro poi il lampadario di carni e scheletro, faranno come fossero statue di rettile nel diorama” – si noti il contrasto ma anche l’intreccio tra figure di scomparsa: “carni”, “scheletro”, “rettile”; e accensione: “lampadario”, “diorama”), qualcosa è ancora vivo, anzi fervente: un “futuro”, un barlume, una speranza appunto, che Nibali vuole si giochi “fino al buco dell’abisso”.
Biobibliografia:
Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. È autore del libro di poesie Come dio su tre croci (2013), premio Elena Violani Landi (2014). Giornalista dal 2016 ha diretto il giornale online Midnight Magazine e scrive per Le parole e le cose e Poesia del nostro tempo. Insegna letteratura in un liceo di Milano.