Una vocale che dica tutto. Mina, Rita, Tosca e Diodato

di Filippo Davoli

Ci sono interpreti che sono dotati di grazia. Studiano, si esercitano, si perfezionano, ascoltano i maestri e ne fanno propria la lezione. Ma hanno, di loro, la grazia. Che è grazia nell’esercizio, nel perfezionamento, nell’ascolto. Ma è anche grazia di per sé. E esercizio, perfezionamento, ascolto, sono richieste dalla grazia, che chiede all’interprete di poter venire alla luce nel migliore e più compiuto possibile dei modi.

A volte, essa si annida semplicemente anche solamente in una vocale. Attraverso la quale dice un mondo intero. Penso a certe sottolineature apparentemente spontanee di Mina (o meglio: lei forse le pronuncia cantando senza programma a monte, le vengono – diciamo così; ma sono fantastiche esemplificazioni della grazia). Specie nelle sue canzoni più segrete, antiche o nuovissime; dove non servono le aperture alari che la contraddistinguono, ma semplicemente un fiato, una “cunetta” (cunetta o dosso, recitava il manuale dell’autoscuola) dà la luce a un intero brano, sequestra l’ascoltatore e lo implica nella narrazione senza lasciargli più scampo.

Mina, riletta da Gianni Ronco per la copertina di “Altro”. Un gioco dell’aerografo che ben rende il groviglio liberissimo della grazia

O penso alla Rita Pavone degli anni ’60, molto più rivoluzionaria – di fatto – di taluni altri pronunciamenti testuali incastrati in melodie monocordi dei cantautori di allora. Perché in quel timing eccezionale e spontaneo appariva tutta l’energia di uno scorcio di secolo fortissimo, quello dei sopravvissuti alla guerra e agli orrori, quello della ricostruzione e del boom; ma in quello stesso timing, in quella voce pazzesca, in quei graffiati, in quegli esuberi improvvisi e dilanianti, tanto di slancio quanto di rabbia, anche l’esperienza della povertà della classe operaia e la spinta per farcela, per venirne fuori con sacrificio e costanza senza rinunciare alla dignità di una lezione antica. Ecco, anche la Pavone è dotata di grazia. Lo è per grazia di stato (esordisce a 16 anni); incarna tutta la storia del suo tempo, della sua famiglia, della sua Torino operaia a cui appartiene e da cui proviene. Non importa che canti il “Geghegè” o “La partita di pallone”: è come canta che fa la differenza. La Pavone di oggi “sceglie” di interpretare; quella delle origini lo fa spontaneamente: non ha sovrastrutture culturali o ideologiche, lo fa e basta. Oseremmo dire, “lo è”. E’ quello che canta, indipendentemente dai testi: è il canto in cui si investe totalmente. Oggi è ancora molto brava, ma la mediazione intervenuta nel frattempo si sente e appesantisce. All’inizio no: la sua credibilità, la sua empatia, erano totali.

Diodato

La grazia, dicevo, quando c’è si contenta anche solo di una vocale. Accade a Sanremo 2020 attraverso la canzone che poi ha vinto e che il suo autore, Antonio Diodato, dimostra di incarnare con naturalezza e maestria da gigante, nonostante la giovane età (non arriva a 40).
Una tecnica invidiabile, un controllo formidabile. Eppure, per fortuna, tutto il cuore gli sfugge di bocca nel secondo verso del ritornello, quando canta “se il tuo rumore mi conviene”. Ascoltate questo “rumore”   secondo, rispetto a quello che appare nel primo verso del refrain. Ascoltate come curiosamente si sovrapponga al “silenzio” del terzo verso.
Il primo è enunciativo, il secondo esplicativo: spalanca il senso di tutta la canzone con la sola pronuncia della “o”.  E’ un grido della carne, un’apertura del sangue con la quale ci porta dentro la storia di una riflessione che è poi la sintesi della storia di un dolore, di un’assenza che urla e chiama, una fessura che apre la luce nel verso successivo, quello del silenzio (e della sua “e” che, come in un canone, richiama la “o” del rumore e la sostanzia).

Anche nel “qui” che unisce le parti, tra primo e secondo verso del refrain, c’è una minuscola digressione (ma ha un senso logico, di congiungimento e di rilancio, e di riempitivo della battuta); invece la “o” del secondo rumore è più forte, istintiva eppure micidiale, squassante. E’ la grazia che fa la sua comparsa. Dentro il tessuto perfettamente lineare della melodia, dove non servono chissà quali invenzioni altre, né contorsionismi e ghirigori, né tanto meno spettacolarità esteriori a richiamare l’attenzione. L’attenzione è catturata dalla grazia. Non si sa che cos’abbia, l’esecuzione: la canzone è semplice, “sanremese” all’ennesima potenza, se così si può dire; estremamente asciutta, oserei dire rigorosa. Eppure è un diluvio.

Diodato

Con molta più ricerca, da vera interprete di qualcosa che fa suo ma non è suo in partenza, brilla sul palco dell’Ariston anche Tosca. Con un brano da antologia, di quelli che non vincono nel voto delle giurie e forse nemmeno tra gli acquirenti di canzoni. Ma rimangono. Sono pietre (o sassi, che il mare però non consuma): memoriali. Che ad ogni ascolto, anche tra anni ed anni, hanno il potere di riattivare il sangue. In questo caso, la grazia dell’interprete è quella di sparire per fare spazio alla parola attraverso le qualità del canto.  Tosca incarna questo proprio ruolo con intelligente sensibilità. Dà luce alla luce, finanche al sospiro (musicale anch’esso) che apre alla clausola del brano. Per le sonorità dell’arrangiamento e la felicità del dono mi viene da accostarla alla Grazia Di Michele di “Bianco” o alla  Rossana Casale di “Boscomare“.

Tosca

Ci sono interpreti che si aprono alla grazia. Nella semplicità. Che – mi piace sempre ricordarlo – è la più ardua, la più difficile delle conquiste.

 

 

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