Come funziona il mondo? Quali sono i meccanismi che regolano il suo moto? Chi siamo noi per poter vivere in maniera – se non degna – almeno adeguata al ritmo dell’esistenza? Sono queste le domande che le Spirabole (di Stefano Redaelli, Città Nuova, 2008, prefazione di Davide Rondoni, pp. 111) la percezione in equilibrio fra le ragioni della ragione e quelle del cuore, queste nuova lingua matematica che parla dell’uomo, scavano all’interno del lettore. Sono tasselli, frammenti manoscritti di risposte che da sole non bastano a compiere un quadro unitario, a dare una formula, una funzione matematica. I tredici racconti hanno questo preciso impianto strutturale; il primo, programmatico, informa tutti gli altri, concede la chiave di lettura al susseguirsi caotico (come caotica è la vita ed il mondo da “interpretare”) dei racconti successivi. La spinta – socratica, che cerca senza prendere per definitivo nessun punto di arrivo, considerando il movimento della ricerca più importante delle tangenziali scoperte – che il nonno e la bambina propongono è la stessa che accomuna, per contrasto o analogia, la collegialità dei personaggi che vivono le pagine. Come funziona il mondo? ma anche come funziono io, il Me che del mondo fa parte senza avere un sistema di leggi diverso? La ricerca è ardua e la parola si attesta al livello di favola, come una possibilità sempre aperta e dunque sempre chiusa. Quello che i personaggi dei racconti chiedono implicitamente, rispondendo ad una sorta di istinto naturale, è il varco che faccia della loro vita-parola una risposta alle loro domande. Lo scienziato del primo racconto ha capito la numerosità delle emersioni di queste Spirabole, ha compreso che nell’ordine del mondo esse giocano un qualche ruolo; c’è da capire cosa esse siano e cosa comportino. La situazione è ancora immersa nelle tenebre – lo scienziato si ritira fra i suoi calcoli, il nonno e la bambina considerano la quête conclusa – ma, proprio alla fine del primo racconto si promette di “parlare del Sole”, di tornare alla luce.
C’è in questi racconti la presupposizione, l’intuizione di una biplanarietà o, visto che Redaelli non è un uomo digiuno dalla frequentazione e dallo studio delle scienze, lo sguardo ad un piano cartesiano in cui vengano disegnate due linee, due rappresentazioni di funzione. È nella comprensione dello spazio che le divide che si svolgono i racconti, nel sospetto di una possibilità che una costante, una varianza o una dilatazione possa rendere evidente l’uguaglianza funzionale. Ma le incognite mancano, sono troppe, vengono dimenticate o, semplicemente per pigrizia, si decide che le due linee debbano restare separate. Con un po’ di attenzione però si nota che la linea inferiore, quella che oscilla fra il +1 e il -1 dell’asse delle ordinate, si ripete in maniera cosinusoidale, come i vuoti ticchettii del pendolo. Quella superiore è invece una Spirabola, il miracolo di una parabola a spirale. Il termine miracolo potrebbe essere usato non a sproposito in questo libro dove aleggia, fra l’altro, una forte fascinazione dal mondo religioso, cristiano e non. Il racconto La mano destra, per esempio, narra della guarigione dello storpio nel Vangelo; oppure in Grida, vedrai si preannuncia il miracolo della riacquisita vista da parte del cieco per intercessione divina. Insomma, il piano della cosinusoide ripetitiva può intercettare la traiettoria della Spirabola; si badi, la curva inferiore è per natura portata a questo miracolo, impasse matematico ed umano al contempo, gelo dell’anima e dell’intelletto, perché la costante di mutamento c’è ma non è calcolabile (se non per una fortissima carica di volontà, di – nuovamente – ricerca). Si può provare (è un esercizio del tutto privo di difficoltà dato che affiora volutamente dalla pagina quasi concedendosi in maniera spontanea) a separare i racconti in due categorie; quelli in cui il miracolo avviene e dalla tenebra si passa alla luce (Ula che torna a camminare, il cieco che torna a vedere, l’ammiratore di Raul che diventa egli stesso Raul) e quelli in cui, quasi come nell’attacco giovanneo del Vangelo, “gli uomini preferiscono le tenebre alla luce” (Marco che, preferendo la vita sicura, temporeggia di fronte alla ragazza del sosia, il capo della ditta che, nella citazione di Al-Ansari, fa di tutta la sua vita un rullo di tamburi, Luca che non fa altro che dimenticare il dono – e l’etimologia – del presente). La categoria rappresentata da una stasi perpetua è suggellata dall’immagine di Pietro che, in “la luce e il fuoco”, ammette: “Ho tradito la luce. La luce e il fuoco”. Proprio questo non voler vedere la difficilissima realtà delle cose segna il destino dei protagonisti di questi racconti; la loro vita si dilata per estensione, arriva al vertice e scende in picchiata come in una grottesca e inquietante montagna russa, senza comprendere la capacità intensiva del vivere. Capacità intensiva che vuol dire potenza dell’attimo, riflessione penetrante che apre nel tempo un bisbiglio di profondissima eternità, dove l’Io si libera dai suoi dati anagrafici e beve nella comunione del tutto alle fonti dell’Essere, che è Eterno. I personaggi che, al contrario di quelli pirandelliani, concludono, sono per loro natura armonici, non timbrici; legati allo sviluppo (e qui si consiglia la rilettura dello stupendo Partiamo adesso) e non alla profondità del loro più vero accadere, alla vibrazione, alla stoffa di questa appartenenza. Il miracolo, quando si compie, rivela non tanto la nuova condizione, ma lo scarto della nuova rispetto alla vecchia; concede lo sguardo del congedo quasi tenero da una abitudine sentita come superata, definitivamente abbandonata per un habitus coerente con la dignità della persona. In questo slancio volontario verso l’abisso della luce si scopre che la funzione rappresentata dalla Spirabola è una cosinusoide “saltata”, vista da un altro punto di vista: d’altronde “Basta un salto per passare dal cerchio alla spirale” (p.104). Si approda nella luce, alla verità matematica-umana-divina che è impressa nel DNA – come nota Rondoni nella sua postfazione – del mondo. È qui, forse, che risiede la magia delle Spirabole, il loro appartenere (anche per forma) all’essenza dell’Io. Io che ritrova se stesso solo non rinnegando, anzi accettando, la sua natura timbrica, intensiva e luminosa. Il miracolo si compie per natura perché la natura è la rivelazione di se stessa più pura, vera. È il DNA dell’uomo e del mondo la volontà di vedere la luce, l’anelito che rovescia i versi della Pandora di Goethe: “Destinato a vedere l’illuminato/ non la luce”. E le Spirabole, nel loro essere quasi illusioni ottiche, movimento ascensionale e al contempo discensionale (e quanto si avverte qui in filigrana la X Elegia Duinese!) che simboleggia la parola poetica fatta vita vera, vita propriamente detta, ricordano il paradosso della luce, così evidente nel rendere il mondo visibile quanto restia al concedersi visibile.