Un bell’albergo di quaranta stanze. Ogni lettore può scegliersi quella che più gli aggrada.
Io ho scelto la trentunesima, forse perché la mia infanzia è piene di gechi che ricamavano i muri delle case del mio paese, o forse perché ho sentito la similitudine del poeta con il bruttissimo ma innocuo animale, come un atto di agnizione umile, un coinvolgimento emotivo dal quale ho potuto poi rifrequentare le altre stanze con maggiore adesione e discernimento.
Ma avevano allertata la mia attenzione anche gli scritti di Antonio Veneziani e di Cristina Annino, due poeti non facili alle concessioni, e che per Ugo Magnanti invece hanno espresso giudizi lusinghieri.
E che dire delle citazioni di Cesare Pavese, di Jorge Luis Borges, di Leopoldo Maria Panero?
Insomma, Magnanti avvisa il lettore che il suo libro tratta anche di come approcciarsi ai versi, di come entrare nel fluido poetico che lo ha spinto ad attraversare l’intero edificio di una storia che, ovviamente, vuole essere emblematica dell’intera esistenza.
Cominciamo da Uscita. Si parla di un desiderio imperdonabile, cioè di una prepotenza, di un qualcosa che a tutti i costi vorrebbe esistere al di là delle convenienze?
Non è specificato, ma il poeta lo ribadisce alla fine, come a volerci invitare a una meditazione che deve rovesciare le acquisizioni che si sono conquistate fino a un minuto prima.
Le stanze, in questo modo, assumono la contezza di stazioni dalle quali si parte e si ritorna per districare i nodi dell’amore e della vita, il fiume di sensazioni che non accettano la sirena delle divagazioni e fermano squarci di vita con puntigliosa acredine.
Dicevo delle citazioni, che non sono mai casuali. Il tono, anche se i versi sono brevi, è pavesiano, Magnanti racconta con semplicità, va avanti con pacatezza e le immagini scorrono senza fretta, come se lo stesso poeta volesse ripercorrerle e rimeditarle. E Borges? Borges è lì per farci sapere che “le sette strade dell’ambiguità interpretativa della poesia” sono a portata di mano nei testi de L’edificio fermo. Insomma, il libro ha una sua valenza alta e senza servirsi di clamori musicali o di impennate liriche ci accompagna alla scoperta di alcune verità imponderabili colte sul filo dello sguardo e su quello della memoria. Non ci sono eccessi, in queste pagine, un equilibrio direi bacchelliano domina la sintassi e i vari quadri e il risultato è molto convincente perché riusciamo a entrare anche nei segreti della quotidianità per esercitarci “come … / matti un po’ a morire”.
Ugo Magnanti ha pubblicato diverse opere di poesia, tra le quali il poemetto in ‘stanze’ L’edificio fermo (con prefazione di Antonio Veneziani e una nota di Cristina Annino, FusibiliaLibri, 2015), confluito recentemente ne Il nome che ti manca (peQuod, 2019), oltre alla plaquette Ciclocentauri (con tavole di Gian Ruggero Manzoni, FusibiliaLibri, 2017). Fra le curatele Quanto non sta nel fiato, tutte le poesie della poetessa serba Duška Vrhovac (prefazione di Ennio Cavalli, FusibiliaLibri, 2015); Sogni di terre lontane, di Gabriele D’Annunzio (prefazione di Pietro Gibellini, Scoprirenettuno, 2010).