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Dimentica la domanda, fai del tuo presente
la sola partenza, non sia solo apparenza
lo stato d’equilibrio che s’apre sulle cose.
Non retrocedere, non piegarti. Non hai
né vanto né colpa. Hai solo la premura
di fare bene. L’espressione che si è persa
devi ritrovare, quella perduta sulla sfera
nel cerchio di tempo fuori da ogni possibile
orizzonte contiguo; fai che possano
riconoscere qualcosa d’altro nel tuo canto,
che non abbia a che fare con testo o voce,
come se non facessi altra cosa che dire.
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Prova a far levitare il pensiero sulla corda
di un arco, che unisca planetari, orbite e segreti
inconfessabili. “Poesia pura forma” annotato
al margine del foglio, “sottrarre al dettato”
impresso in controluce sulla nuca,
per non vederlo, solo avvertirlo un poco
contrappeso; “ritmo del battito” solo
scritto sul tuo viso, oggi assorbito
da una ruga, come fosse una sutura
al tempo che non sa dove passare, sottomesso
a pensieri eroicamente riusciti a manovrarlo.
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Se solo ho avuto da te un dono
È la forza di essere autentico,
Colpire il midollo delle cose,
Le questioni razionali altre,
Nel tuo conto, non ci sono.
Solo la singola esperienza umana,
Giuro, ogni volta che ti vedo, mi stacca
La strada da sotto i piedi, ci separa,
Mette nello spazio d’aria di una linea d’occhi
Un alfabeto da ciechi, e così ho rivisto
In mille versi il quotidiano, quello che ti devo.
Ho messo in verso diagrammi
Ho iniziato solo per spirito e ora domino
Il potere di pensarti e di difenderti
Solo perché con due cuori si sente
Più del doppio e io che lo so
Dovrei ricordare: sei
La modulazione del mio canone,
Sei il mentore, tracci un’idea pura
Che sporco ad arte con la voce.
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Comunque tu la metta, Ancona
È sempre sotto la luna piena,
Guarda dalle case alte la staffetta
Delle onde, lì dove l’uomo ancora
Glielo permette. La banchina salata
Preda già dai primi raggi delle riprese
Di film senza volume, è lì che oggi
Si áncora il mio pensare ad assonanze
E sinalefi, questo gomitolo di lingue
Che registro dalle ventitré alle cinque,
Perché si sa, il sogno più vile,
Quello più infantile,
È il sogno del poeta.
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Se la semplicità vincesse contro
i mostri che architettano il raggiro
se odorando il vento aprissi una scala
che approda in arcipelaghi di luce
se sussurrando amore prima del sonno
potessi sentirla stretta al petto
se umiliassi il fuoco alla maniera della neve
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Esco dal tuo ramo come un grappolo
Sei in tutto quello che penso, sei
Ogni possibile variante dell’equazione
Che apre la pagina, sei la combinazione
Infinita di strategie d’arresa e di vittoria,
Sei, sei e tanto mi basta a svettare
Su come la luna, io caduto con lo sguardo
Sullo spazio, all’aperto. Guarda, adesso
Contengo la forma, sarò io l’acqua
Nella brocca cristallina del dettato,
La materia adatta alla stesura di principi
Divenuti ad un tratto imprescindibili
Come i rullanti di un’orchestra, il respiro
Trattenuto da un golfista,
La calma emozione dell’algebra.
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Lorenzo Fava, nato ad Ancona il 12 giugno ‘94, vive a Macerata dove studia Lettere e collabora con “Il Resto del Carlino”. Sue poesie sono apparse su “Poetarum Silva”, “Yawp”, “Arcipelago Itaca” blo-mag, “Carteggi Letterari”, “Critica Impura”, “Inverso e Poesia Ultracontemporanea”.