Noi della mia generazione, da sempre vissuti nelle Marche dove siamo nati negli anni ’60 – dalla metà in poi – abbiamo fruito, nel tempo della formazione e negli incontri felici della biblioteca, di tante esperienze nostre conterranee, significative per tutta la Poesia italiana dell’Ultimo Novecento: Piersanti, D’Elia, Pagnanelli e Garufi, il gruppo anconitano facente capo a Scataglini (insieme a Scarabicchi e Raffaeli), De Signoribus, ma anche (sebbene più in ombra) Alvaro Valentini, Plinio Acquabona, Germana Duca…
Nella lista Leonardo Mancino riapparve quando rientrò nella sua terra d’origine dalla Puglia, e precisamente da Bari, dove era vissuto lunghi anni, tra l’altro dirigendo in maniera eccellente ed esemplare le pubblicazioni di poesia dell’editore Lacaita – unico vero contr’altare all’egemonia lombarda e, in misura minore, romana, dell’editoria di settore.
Mi venne presentato dal comune amico Guido Garufi, in occasione della presentazione del mio Mal d’auto (1990), cui Leonardo intervenne trovandolo molto convincente (e dire che, invece, mi sono “riconciliato” con quel mio librino soltanto da poco tempo: lo trovavo eccessivamente criptico e complesso).
Leonardo aveva alcune caratteristiche umane inconfondibili: fumava come una ciminiera (molto familiare, dunque; sia per la rivista di dieci anni dopo, che il per il comune vizio), aveva un carattere ben poco conciliante, oserei dire “scazonte” – se il metro greco può aiutare a cogliere cosa intendo; ma un cuore largo e generoso, specie davanti a un buon bicchiere e ad un piatto di pasta, vantando – oltre ai meriti letterari – anche quelli culinari e gastronomici; al ritorno nelle Marche, era vissuto prima ad Osimo e poi a Macerata, da dove gli era più facile raggiungere la natia Camerino, dove per alcuni anni lavorò come direttore didattico.
La casa di Leonardo rimane, per me, un indimenticabile e fecondissimo ricordo: di libri – poggiati ovunque, in pile interminabili dal pavimento al soffitto; di ritagli di giornale – anch’essi catalogati in maniera ossessiva e impilati ovunque; e naturalmente di una nuvola finanche palpabile di fumo blu, come nella canzone della “mia” Mina. Luce bassa di un abat-jour, e dietro la scrivania dello studio, il suo sguardo accigliato e luminoso al tempo stesso. Tagliente. Si stava insieme interi pomeriggi, baloccandoci tra illuminazioni dell’animo, i suoi ricordi di qualche stagione precedente – generalmente sempre interessanti e formativi, e qua e là – ci sta, anche se forse sarebbe meglio di no, ma ci sta… – qualche pettegolezzo sull’ambiente letterario e dintorni.
Leonardo non era uomo accomodante. Lo apostrofavo come “Tiro mancino” (sotto questo epiteto gli affidai una rubrica della durata di cinque minuti a Radio Nuova, al tempo in cui dirigevo per l’emittente la redazione cultura), o “Dente avvelenato” (perché pur avendo la dentiera preferiva evitarne l’uso il più possibile), quando – avvalendosi dell’indimenticabile premurosa lezione di un Danilo Dolci o finanche di un Don Milani – scagliava verso la piega che stava prendendo l’Italia politica e (civile?) i suoi strali senza ritorno: era la sua letteratura applicata alla vita, l’ideale che si incarnava, l’attenzione ai più piccoli (mirabili le sue attenzioni alla letteratura per bambini), la storia di cui non si può mai fare a meno (storia e biografie, per dirla tutta); erano i personaggi che avevano fatto grande l’Italia (da Salvemini in qua); era – anche – quel modo di approcciare la cultura, l’arte e la vita che è tipico di chi quella stessa cultura, quella stessa arte, le abita se è figlio del meridione: con un occhio che guarda molto diversamente rispetto a quanto facciano i colleghi del nostro Nord; e con un metro (non solo di valutazione, ma anche di scrittura) che è “altro”, e spesso “tutt’altro”, rispetto alla linea cosiddetta “lombarda” e a tutti gli altri canoni (di andata e di ritorno) sviluppatisi negli ultimi decenni della nostra Letteratura.
Ricordo tante discussioni su Scotellaro, Bodini, Tentori, Dolci, Pasolini, Alfonso Gatto. E puntualmente, nel bel mezzo di qualche nostro commento ad alta voce sulla perfezione di un verso o sulla profondità di un rilievo critico, scattava ad entrambi il desiderio di fare una telefonata agli amici comuni: Giovanni Tesio, Rodolfo Di Biasio, Alberto Cappi, Domenico Adriano…
Da casa Mancino difficilmente si usciva a mani vuote: come nella moltiplicazione dei pani e dei pesci, chissà perché lui regalava libri a chi andava a trovarlo e, la volta dopo che entravi in casa sua, i libri erano cresciuti di numero rispetto alla volta precedente. Conservo – oltre ai suoi titoli di saggistica e di versi (ormai autentiche rarità) – un’edizione straordinaria dello Zibaldone di Leopardi in tre volumi di pregio, fedele compagno di lettura nelle domeniche pomeriggio piovose.
Poi nacque la rivista “Ciminiera”, poco tempo dopo la già avviata rassegna estiva di poesia che curavo dapprima a nome della Biblioteca “Mozzi-Borgetti”, poi a titolo personale, infine a nome dell’associazione facente capo alla rivista. Leonardo era un ospite quasi fisso: e per lui, più che l’occasione di presentare un suo libro (attività di cui non aveva certo bisogno, anche se – come tutti quelli che scrivono – fa sempre piacere avere una piazza con un uditorio), venire significava la bella concomitanza in cui passare una serata diversa in compagnia di vecchi e nuovi amici (in rassegna, nel corso degli anni, erano passati nomi come Cappi, Tesio, la Bre, Ruffilli, D’Elia, Piersanti, Garufi, la Frisa e Marco Ercolani, Sissa, Bertoni, Massari, Rondoni, il francese di origine belga Guy Goffette, Gianfranco Fabbri e Gian Ruggero Manzoni, Mauro Ferrari, e tanti giovani di ottime prospettive come Andrea Ponso, Gabriel Del Sarto, Massimo Gezzi, Stefano Raimondi, Massimo Fabrizi, Tiziana Cera Rosco, Alessandro Seri, Isabella Leardini, Nicola Riva, lo stesso Giovanni Cara che con me aveva fondato “Ciminiera”, più attori come Arnoldo Foà, Glauco Onorato, Lorenzo Anelli, Neri Marcorè, e tanti altri nomi che ora non mi sovvengono).
Era una rassegna cresciuta negli anni, pur mantenendo la spesa per organizzarla a livelli bassissimi (a riprova del fatto che non serve dilapidare milioni, per far bene le cose). La scrittura diveniva, come per incanto, quell’intromettersi in un retrobottega che accorcia le distanze e allunga lo sguardo. E il mattatore Leonardo, il trasvolatore Mancino, non perdeva occasione di segnare il punto, di vociare con quel suo timbro incalzante e l’accento ora teneramente camerte, ora poderosamente barese.
A distanza di alcuni anni dalla sua morte, purtroppo quasi nessuno lo ricorda. Mi è parso invece opportuno, quest’oggi, tornare alle sue carte. Non alla produzione poetica in dialetto camerte (forse la più convincente e sopravvissuta all’oblio), ma ad alcune altre belle poesie in lingua che aveva pubblicato proprio per i tipi di “Biblioteca di Ciminiera” (con noi, cioè) e che erano apparse nel numero quattro della rivista (novembre/dicembre 2002).
MADRE
Madre che fosti così buona
nella tua vita di lunghi cammini
di orizzonti ignorati
nel panorama del monte
e sul mare, ho bisogno che le tue mani
curino la ferita
perché possa camminare
nel giardino.
Madre, se l’universo buono esiste
tu che gli sei dentro la rosa
su qual cielo aperto
immenso e vasto, curvo
reclinata come un trifoglio
nel suo cuore.
Se esiste l’immenso come sguardo
che si perde al sole
digli
che il figlio porta la sua vita
come un inferno;
se questo è Lui
vicino a te vuole finire,
morire
e non voleva mai
averne bisogno.
(da Le virtù, le occasioni, le cose, “Biblioteca di ciminiera”, 2003)
SONO STATO
Sono stato nel ventre della nuvola
per troppo tempo.
Ora se qualcosa accadrà
sarà cercare un rifugio nel buio
come per dipanare un inganno.
Tra un movimento e l’altro
brilla sinistro l’antico museo
reso tra ombre di spettri
e i rari chiarori della luna.
A tratti improvvise luci
rivelano nudità di carne:
oggetti terreni e vaghe soluzioni.
VIDI LE CITTÀ
Eppure in tutte queste frasi
inverosimili e perfette logiche
sintattiche c’è un filo conduttore,
parole non dette
serpeggiando nel mezzo ad altre pronunciate
compongono resoconti precisi
e il tutto dura pochi istanti.
Queste piccole città molli,
distese di schiena sul dorso dei colli,
senza importanza,
a mezza strada tra il mare
e i segni della civiltà di campagna,
chiuse da campi e da colline
dove la nebbia bassa ed un colore stinto
confonde, intorbida
paesaggi e pensieri,
vivono una vita intima propria,
ai margini della storia degli uomini
e del sole straniero alle volute dei cieli.
CITTÀ NON MIA
Tutti i temporali dell’estate inconsueta
erano trascorsi,
il primo autunno compensava
d’una stagione perduta.
Sulla sera scendeva dalle colline
ad increspare il fiume
una brezza leggera come di lenzuolo,
un fruscio appena sentito,
vagava in lenti recessi
per i prati, le alterate pettinature, i profondi silenzi.
Al di là dello sguardo
– sorta di luna sfera –
le cascine lontane si offrivano silenziose
come la lunga siepe accarezzata
dal palmo della mano in un brivido.
Una voce si perdeva quasi senza risonanza
come se la querce la trattenessero
o la luna.
SIGNIFICANDO L’ANTICA CASA
Il mondo, dai bargigli ai piedi,
è un inferno.
Pensare allora di dover commettere
comunque gesti di bambino
per vivere
per sempre.
I cassetti del comò
ci appartengono
come i momenti della nostra storia:
ringiovanire le stanze della casa,
ecco il compito che ci siamo dati.
La casa significa i volti
che le stanze ospitano:
gli vogliamo bene per questo
senza nulla sapere o forse.
La nostra vita sono le strade e le piazze
universali di razza, d’antico pelo,
come si dice sorridendo.
C’è sempre qualcosa al di là
di questa nostra repubblica di parole;
tutto può avere un senso
d’archeologia
di eldorado insieme; per correre
occorre esser rasati
e con indosso i vestiti migliori.
Tra noi e le cose della memoria
ci divide un sentimento impreciso
vivo
rivalità
emulazione e rissa.
(da “Ciminiera”, n.4, novembre/dicembre 2002)
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Leonardo Mancino era nato a Camerino (MC) nel 1939. Autore di numerosi contributi critici su autori del Novecento (tra cui Pasolini, Zanzotto, Volponi, Scotellaro, Sciascia, Quasimodo, Bodini, Sereni, Bartolini), aveva collaborato anche a quotidiani come “La gazzetta del Mezzogiorno” e il “Corriere Adriatico”. In ambito poetico ha pubblicato diversi volumi, tra cui si ricordano Il sangue di Hebert (prefazione di R. Roversi e A. Zanzotto, Lacaita, 1979), Dichiarazioni silenzio e giorni (Cappelli, 1987), La casa la madre il colle e l’orto (Schena, 1989), La curva di Peano (Stamperia dell’arancio, 1999), Le virtù, le occasioni, le cose (Ged, Biblioteca di ciminiera, 2003). L’opera poetica è stata antologizzata in L’utopia reale (prefazione di Giovanni Tesio, Caramanica, 1994). In ambito saggistico ha pubblicato, tra gli altri, Oltre a Eboli la poesia: antologia della lirica “civile” meridionale (Lacaita, 1979), Lo scrittore vulnerabile (La nuova Italia, 1984), Transito e forza del ricercatore operoso (Stamperia dell’arancio, 1995).