Sgattaiolava, sgusciava via, sbucava da dietro l’angolo con lo sguardo curioso e un po’ embeh?… embeh!… della sua mascherina, la 500, novella “Topolino” come mandata da un alchimista-imbonitore, “raffreddata ad aria siori e siore!… raffreddata ad aria”, che avesse studiato nell’astuto mondo del Mago di Oz. Ci portava ovunque, per pianure e montagne, a scoprire le meraviglie del nostro Paese in rinascita, la 500, protetti nientepopodimenoché dalla sua cappottina di tela, dalla quale, aprendola con due click nella prima serie e, addirittura!, con uno solo nelle successive, si poteva sbucare a mezzo busto, in piedi sul sedile, a benedire tutt’intorno quell’immensa felicità che il mondo stava promettendoci. E ad affacciarci, da quella posizione, rasentando i marciapiedi delle “vasche” cittadine e delle passeggiate paesane, verso le scollature rotonde e fresche che l’esuberanza irrefrenabile di Brigitte Bardot aveva convogliato nel guardaroba delle nostre coetanee di neopatentati, di eterni gitanti destinazione “chissà che meraviglia!”.
In un Paese nel quale ancora regnava, come suggerimento utile e indicazione sovrana, la sintesi, la 500 ci informò, tutti, in pochissimi elementi, motore, freno, acceleratore e quel minimo indispensabile che li e ci conteneva, di che cosa fosse un’automobile. Al mio paese la presentarono di sabato pomeriggio, la 500, forse in uno strategico 27 giorno di paga, sulla piazza più bella sul lungomare, tra gran pavese di bandiere, con accanto un microfono per il conferenziere, il sindaco con la fascia; e venne il priore con i chierichetti a benedirla come gli avevo visto fare con le uova a Pasqua e gli animali sul sagrato non ricordo in che data ogni anno.
Prima auto di famiglie molto raramente obese, si trasformava in grande complice del primogenito e da chaperon dei suoi primi amori, visto che, come alcova, più che alloggio garantiva performances di contorsionismo. Ma garantiva camporelle, ovunque, portandoci via, via, via, caracollando, quel nostro primo E.T. solleticato, nel cielo del tettuccio, dalle cotonature odorose delle fanciulle allora in boccio.
Tra sogni generali di grandezza, le crebbe intorno, alla piccola 500, un mondo a misura, popolato di sfreccianti speedy gonzales che le somigliavano tanto, di radioline a transistor, di minicantanti che sgambettando sui loro ritmi di successo sembravano volersi muovere come lei che impavida affrontava le prime autostrade a due corsie infilando mbeh?… mbeh!… i primi caselli marziani con pensiline un po’ da capolinea lunare finalmente diversi da quella specie di case cantoniere che erano state fino allora le stazioni d’uscita.
Noi ragazzi toscani della costa, tra paghette e primi guadagnetti da studenti ingegnosi, con lo sconvolgente pieno di duemilacinquecento lire, la 500 ci portava dal mare a Firenze con giri in città e dintorni e ritorno, per un totale di circa una “dugentina” di chilometri, secondo la fresca lezione di Giotto. Ci riusciva perfino la guida “lunga”, sulla 500, nelle gite a due, il sedile tutto tirato indietro al limite degli scorrevoli oltre il fermo, le braccia allungate sul volante, le gambe distese sui pedali, la caviglia destra eternamente impegnata in un evitabilissimo puntatacco per un superfluo gioco di doppiette, i fianchi stretti fasciati dai primi pantaloni senza pinces comprati al mitico mercatino di Livorno, lo stesso che poco più tardi ci avrebbe fornito gli eskimo, a noi ragazzi toscani della costa. E le nottate d’inverno passate “a giro” al caldo di quella specie di phon sotto il cruscotto, vetri appannati dalla vitalità della folla di noi cinque occupanti, spia della benzina eternamente accesa fino a bruciare una sera la lampadina, e le tintarelle di luna doppiate a squarciagola mentre venivano fuori dai mangiadischi a pile fatti a tostapane, prima, e poi gli yellow submarine, le satisfation, le whiter shade of pale che venivano fuori dai primi mangianastri, a pile anche loro.
Sulla mia, la prima volta che ci salì, Mina cercò inutilmente sul cruscotto, tastandolo per un quarto d’ora senza che io capissi cosa stesse facendo, l’accendino, chiamandolo alla fine addirittura “lighter” per dirmi cosa stava cerrcando. Le porsi i fiammiferi, il portacenere c’era.
I miei cani ne fecero la loro canemobile, proprio come Batman aveva fatto con la sua auto, arrivando ad ospitarci, felici, un gabbiano ferito che per una settimana diventò anche lui un nostro compagno di viaggio.
Un giorno lontano, la 500 mi portò ancora più lontano di quanto sia ormai lontano quel giorno; a Roma, a fare tutto quel che feci dopo.
Arrivò sull’orlo delle barricate con un coraggio da leone, quel topo quasi vicino al prepensionamento incalzato da altri modelli da rivoluzione. Ma la 500 era già, per noi, un numero molto importante, sappiamo adesso: le almeno 500 meravigliose cose che ognuno di noi, allora, era sicuro gli sarebbero successe nella vita.