Una Lucetta nell’intimo del mondo

di Filippo Davoli

Ogni volta che butto l’occhio nella cassetta della posta tremo: specialmente se vedo bianco (equitalia, scadenze e rinnovi, bollettume vario) o verde (beccata un’altra multa, vediamo dove stavolta). Ma altre volte fa capolino un bel colore ocra: libri. Un dono che arriva, e una curiosità grande di scoprire chi lo manda. È così che ho ricevuto l’antologia poetica di Lucetta Frisa (versi dal 1970 al 2014), edita per i tipi di Puntoacapo in un formato delizioso, estremamente maneggevole, di bella grammatura di carta e raffinata copertina.

Lucetta… ci conoscemmo perché mi ero messo sulle sue tracce dopo aver acquistato in un mercatino il suo, per me indimenticabile, Gioia piccola: ero rimasto sedotto dal suo racconto della polvere, elemento a me così familiare. E poi dalla musicalità naturalissima del suo verso, dalla delicata ironia e dalle molte fulminazioni disseminate con sapienza qua e là.
Lucetta… una poetessa in punta di penna, percorsa da quella grazia che è propria dei veri talenti.

È bello poter scrivere di un libro prendendolo anche a pretesto (o pre-testo) per una ricognizione del vissuto: quante occasioni ci hanno visto a fianco, sia a Macerata che nella sua Genova, con lei e con Marco Ercolani, a casa mia e a casa loro, nel nostro cortile municipale (che ospitava l’allora rassegna di “Poeti di Ciminiera” – anni a cavallo del nuovo millennio) o in una biblioteca rivierasca.
Ci siamo sempre di-vertiti, insieme: sia nel senso comune del termine, sia in quello più sottile del prendersi di peso e ripartire per nuove direzioni. Reciprocamente stimolati a nuovi e differenti percorsi. Sono anche contento che il suo Siamo appena figure (un dialogo in versi con alcuni dipinti per lei, ma anche per tutti gli altri, emblematici) vide la luce per i tipi di “Biblioteca di ciminiera”, nel 2003. Credo, a tutt’oggi, che sia uno dei suoi libri più significativi e particolari. Bello ogni volta che lo riapro. Che non subisce usura temporale e nemmeno emotiva, come invece mi accade con tanti altri.

L’antologia dell’opera di Lucetta Frisa, come dicevo, si intitola Nell’intimo del mondo (puntoacapo, 2016). Se ne può parlare anche a un po’ di distanza dall’uscita: perché i libri, fortunatamente, non scadono come gli yogurt. Sicché meglio tardi che mai, specie se meritevoli di attenzione.

Lucetta Frisa

Leggere dunque da capo a piedi questa antologia conferma un dato: la scrittura di Frisa è sempre in evoluzione, e tuttavia conserva un tenace fil rouge interno, dall’inizio alla fine.
Molti non lo sanno, ma Lucetta è anche stata attrice (legge la poesia come pochi) e cantante (ho alcuni suoi nastri rarissimi che chiariscono una volta di più da dove prenda origine la forte musicalità dei suoi versi, la felice tenuta metrica dell’intero suo dettato, che tuttavia scava e indaga la vita senza filtri, senza sconti): come scrive Vincenzo Guarracino in prefazione, <è a partire da questo omphalos, luminoso e insieme oscuro, esaltante ma anche doloroso, che prende il via un’avventura esperita col viatico consolatorio della scrittura (si scrive “respirando”), costruendo ogni volta vere e proprie partiture liriche e drammatiche, storie di un’inquieta ricerca di luce in cui si coniugano e trovano corpo pensiero e memoria in strutture di controllata densità, in una lingua mutevole e lunare, a tratti dramamaticamente franta, cavalcantiana (“una scrittura / di nervi e sinapsi”, come è definita nella raccolta L’altra, 2001), la cui esplicita ambizione è quella di far lievitare e sopravvivere “in punta di penna”> – appunto… – <quell’idea di sé enigmatica e femminile, cangiante, che ognuno si porta dentro, nei propri intimi “inferni”, come una risorsa o una condanna>.

Credo convintamente che l’avventura poetica di Lucetta Frisa sia una delle più convincenti nell’attuale panorama italiano. Può essere una lezione di autenticità per tanti, specie giovanissimi. E un monito per tanti altri, più scafati per così dire….

 

Lucetta Frisa e Marco Ercolani

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alcuni testi dall’antologia

*
Solo chi sale conosce il precipizio solo
chi ha tante braccia sa lo spazio e il ritmo.
Ad ogni cosa mi portano segreti canali
quando le torri delle parole si rovesciano
in pozzi. Sepolti tutti i significati,
allora aperte si allacciano correnti
universi creati dentro altri. Il gallo
canta ed entra la sua voce nel nuovo
grembo del mattino che fu seme notturno
e sono albe tramonti frutti delle ore. Girano
gli occhi sul fondo delle lune, nuotano
verso il giorno che le ritorna morte
come pesci. E lo scheletro sta diventando
luce ho ancora sangue e nervi,
questo viaggio è testardo: è sempre
chiudere il libro e, soli, tentare.

*
Scrivere
La percezione del buio nello studio
mi insegna a non dimenticare
gli oggetti del giorno incolori e orfani
che scintillano assenti nello specchio.

Calma, nella notte, non invento nulla
neppure una parola logica – scrivo
respirando, tocco l’alfabeto infantile
che inavvertitamente si è fatto adulto.
Non ho imparato nulla di ciò che volevo sapere
qualcosa dico ma dimentico o ricordo
fuori di me, senza sforzo.
Il dolore c’è stato prima.

La percezione del buio nell’alta attenzione
ha distrutto lo sfondo, invaso
carne e cervello che provano nuovi sopori.
Le congetture bruciano.

È così facile scrivere. Lascio alla luce
ogni angoscia, pongo la mano sulla penna,
la stringo. Mi porta via, cieca.

*
L’arte di non pensarla
Spostando una sedia o una virgola si torna
nella pelle selvatica come negli abiti stagionali
(è la lezione dei climi variabili): lei si sposta da
un’altra parte.

Oggi ad esempio non ho voglia di morire,
non so perché, forse oggi il mio cervello ha humour
le butta addosso una testa d’asino
le appicca fuocherelli insidiosi.

Mentre brucia ficco gli occhi nei suoi che sgusciano
via e anche i miei se ne vanno di là e i pensieri
sono tutti laterali, non hanno voglia di esserci.
Visioni e illusioni la coprono di ghirigori.

C’è chi pensa che cambiando spesso registro
non si è seri. Verissimo. Si comincia a passi pesanti
per poi stornarsi, si apre la lotta con verità secche
si finge di chiuderla con finti fiori.

*
Maddalena
                        (George de la Tour)
Meditare davanti a oggetti chiusi
l’apertura del mondo:
uno specchio un teschio il mio corpo
in mezzo alla notte della stanza.
L’occhio e il teschio per incantamento
si fissavano immobili allo specchio
mentre cadevano i miei lunghi capelli.
E lentamente smemorando i nomi
le cose allusero ad altro
la notte simulò un buio più vasto.
L’aria si accese vibrando mutava
le certezze vsibili in ombre
che tornavano in luci inconosciute
al buio ritornando, se ardevo il tempo
in trasparente polvere d’aria –

e fui solo uno sguardo nello spazio.

*
Gli sposi Arnolfini
                                          (Van Eyck)
Nel silenzio lo specchio mostra figure rovesciate
se è vero che siamo qui a bisbigliarci qualcosa
di molto elegante scandendo sillabe leggere
dove l’eco si cancella sulle labbra e pure
le mani, appena sfiorandosi, non osano farsi domande.
Se fosse questo il sogno di un’altra coppia
un mistero cortese che invisibile soffoca
nel quieto disegno delle cose per svelarsi
solo di là, nell’ardore di gesti dissennati
in ombre e profili capovolti. Ma è così
che ci immagina il nostro desiderio.

*
Le
parole
Le ama ancora nella loro dissennata
liturgia e nella loro folla cerca
un doppio che sembri ancora vivo,
e ama il loro rotolarsi
per espellere la disperazione
che sulla pagina imparerà uno stile.
Più infelice e inquieta se non scrive
scrive per aggiungere un po’ di fiato
al fiato il suo poco amore
all’amore se un giorno aveva traboccato
se si era fatta trapassare dall’ebbrezza
di suoni   uomini mare alberi stelle
notte vento animali
e se sapeva emozionarsi.
Quale poesia – si domanda –
ha l’arte di disarmare la tristezza?

 

 

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