Come si dice del mondo? Che siamo circondati dai vecchi. Non è vero: siamo invece circondati dal vecchio. Il futuro è come inceppato, ma cammina! Per questo i giovani sono la speranza, la forza del mondo! E capiscono, capiscono tutto e bene! Invece i falsi giovani fanno finta di capire, sono la vera rovina; perché il mondo va verso l’avvenire incontrando i giovani, con una forza innovativa continua.
A parlarmi così, durante una delle ultime interviste che gli feci, era stato Wladimiro Tulli, scomparso 15 anni fa, artista e figura emblematica del Secondo Futurismo da cui aveva preso le mosse nella sua Macerata, all’interno di quella feconda esperienza che è stato il “Gruppo Boccioni”.
Fondatore del “Gruppo Boccioni-Tano” – alla morte di quel Bruno Tano che constituiva un po’ l’anima del primo gruppo futurista maceratese, poi marchigiano (per dichiarazione dello stesso Marinetti) – Tulli era il più giovane di quei ragazzi “sotto i trenta” che nel 1936 decisero, seduti ai tavolini dell’allora Caffè Montecchiari, in quello che oggi si chiama Corso della Repubblica, di costituirsi come “Gruppo Boccioni”, aprendosi alle sperimentazioni artistiche di cui giungeva voce dalla capitale.
Umberto Boccioni era morto in guerra, segnando con le proprie ricerche pittoriche il primo quindicennio del secolo, tanto da costituire ancora oggi il maggior punto di riferimento dell’intera avventura futurista, quasi che il cosiddetto Secondo Futurismo non abbia avuto argomenti altrettanto degni di nota e di memoria, al di là della sua citazione cronologica.
In realtà, dopo il riflusso degli entusiasmi seguìto al sanguinoso primo conflitto mondiale, il risvegliarsi delle attenzioni intorno ai programmi estetici di rinnovamento, di cui senza dubbio il Futurismo era stato il motore primo (e a livello europeo), consentì un’attenzione nuova a quegli intendimenti, favorendo il sorgere di vere e proprie scuole locali: da quella torinese a quella umbra, a quella maceratese-marchigiana.
Se cioè la prima fase di sviluppo del Futurismo si era incentrata sulla figura del fondatore, il Secondo Futurismo guardava ancora a Marinetti, ma rendendosene autonomo, in grado di sviluppare i propri percorsi di ricerca senza venire meno alla coerenza di ciascuno sia come singolo artista, sia come membro attivo del gruppo di appartenenza. In questo senso, ancora, se ad esempio nel gruppo umbro l’attività gravitava intorno alla dominante presenza di un Dottori, il gruppo maceratese-marchigiano – come sottolineato da Enrico Crispolti nella prefazione al volume Futuristi nelle Marche (De Luca Editore, 1982) – “se ebbe in Tano una personalità molto intensa, fu in realtà più corale, dunque disposto più ad esprimere una dialettica di modelli possibili, che non un modello dominante e perciò più definito”.
Ricordo una chiacchierata fenomenale con Umberto Peschi, un altro protagonista di quella stagione maceratese (e romana, perché era vissuto nella capitale dal 1936 al ’46), e maestro di un altro maceratese illustre, lo scenografo Dante Ferretti. Mi diceva Peschi:
Io sono stato a Roma dal ’36 al ’46, negli anni migliori… e qui Tulli ha commesso un errore: non ha lasciato il paese… intendo dire Macerata… perché il paese non gli poteva dare più di tanto, non lo poteva contaminare… perché Macerata è proprio così, si sa, c’è come una cappa di piombo sopra… A Roma, invece, vivevi il Futurismo in prima persona… Prampolini, Marinetti, Licini, insomma un’altra cosa…
Per quanto, peraltro, Casa Peschi in Via Lauro Rossi a Macerata fu il teatro naturale del primo incontro tra Tulli e Marinetti, ospite del primo e animatore di una serata indimenticabile, a base di arte, castagne e vino rosso. Lo slancio creativo e ideale mischiato fatalmente alla semplicità della vita.
A fondare il “Gruppo Boccioni” – sotto l’egida di Bruno Tano – erano stati Rolando Bravi, Paolo Ferdinando Angeletti, Sante Monachesi e Mario Buldorini (nome caro ancora oggi ai concittadini, ma per l’attività alimentarista e gastronomica condotta inesaustamente fino a vecchiaia inoltrata; e presso la sua bottega – tra il profumo dei supplì – il dibattito sull’arte era continuato anche negli anni della Ricostruzione, del Boom e oltre, fino alla chiusura dello storico negozio).
All’interno del Gruppo c’erano anche due musicisti: il fratello di Mario Buldorini, Ermete Jr. detto Mimì (pianista), e Mario Monachesi Chesimò (primo maestro di canto di Mario Del Monaco): fu proprio Chesimò a pubblicare su L’azione fascista locale, il 6 marzo 1934, un articolo di intenzioni fortemente innovative nel campo della musica, in cui peraltro, si avvertono ancora molto certi toni dei Manifesti pratelliani:
“Pittori e poeti sono riusciti a rendere con la nuova Arte la spiritualità delle cose, perché dunque noi musicisti non abbiamo il coraggio di affrontare il medesimo ed arduo problema? E’ ora che anche nella musica si cominci a svecchiare. Basta con le stranezze armoniche e contrappuntistiche applicate al melodramma, basta anche con questa specie di spettacolo che ai nostri tempi non ha più ragione di esistere (…) La musica che fino ad oggi abbiamo ascoltata ed eseguita sta sulle nostre anime irrequiete come starebbe la cipria sul volto di un minatore appena uscito dalle viscere della terra. Bisogna avere il coraggio di staccarsi dalle tradizionali convenzioni e cercare di creare ancora, di creare sempre per appagare le nostre anime di artisti che fissano arditamente il sole, cercando nuovi motivi e creazioni dell’animo”.
Firmarono pochi spartiti aerofuturisti, perché presumibilmente per primi non credettero fino in fondo in quella auspicata rivoluzione; però, sorprendentemente, a riesaminarli oggi, ci si rende conto che sono spartiti più futuristi di certe pagine di Balilla Pratella, così legate – invece – nei fatti alla tradzione da cui – essendo allievo di Mascagni – Pratella discendeva direttamente.
Di Peschi, l’anno prima della morte di quest’ultimo, Tulli mi raccontava:
Con Peschi si sta bene, perché ti dà fiducia. Peschi, a quasi ottant’anni, è giovane. Non ha mai paura di ricominciare. Abbiamo fatto tante cose insieme, ne facciamo ancora tante, insieme… gli sono molto grato per il calore che riesce a infondere, per l’energia, per la passione che mette nel suo lavoro… siamo stati insieme per il mondo, insieme nella creatività, insieme nell’invenzione di situazioni, insieme nel rischio, nell’avventura (che è il rischio più il movimento).
E ancora:
E’ l’amore che muove tutto! Io e Peschi l’abbiamo conosciuta e raggiunta, la luna! Era la luna di Licini, sulla quale eravamo da soli, all’atterraggio. Gli altri sono venuti dopo vent’anni, quando la colonizzazione della luna era già avvenuta… Con Peschi sono sempre partito, attraversando con le seconde classi tutto il Paese, e siamo sempre in partenza!
Gli faccio io:
Però tu sei sempre tornato…
E lui:
Non ho lasciato Macerata perché allora era difficile anche partire, ma molto più coraggioso restare! Se non fossi restato, forse non saremmo stati insieme nell’arte, chissà… abbiamo fatto molto per Macerata, sapendo il valore delle radici, che sono anche il punto di arrivo: la madre, ma anche l’obiettivo (…). Ciò che conta non è il risultato, ma il rischio insieme, l’incontro. L’amicizia è fervore, stima, ricerca insieme. Questo oggi, a Macerata, è possibile; a Roma non più. E’ finito, quel tempo. Oggi la grande città è possibilità di incontro-mercato… ci siamo accorti che oggi la fucina è l’artista, che è solo contro la città. Lui fa ricerca ovunque. Tutti noi artisti restiamo vigili fuori dalle mura… io e Peschi abbiamo sognato insieme, lottato non contro ma a favore di qualcuno… di noi stessi e dei giovani, che sono la nostra unica certezza-conforto, verso cui si dirige la nostra espressività, che ci emoziona ancora e sempre come la prima volta.
Credo, a distanza di anni, ripensandoli tutti e due nei luoghi che sono anche i miei, con quella loro bella e calda energia, quella innamorata e innamorante innocenza, quella freschezza da dentro che non dimenticherò mai; credo, dicevo, che il motore primo di quella loro esperienza giovanile (non ideologica né tanto meno in linea coi ranghi in voga allora…) risieda proprio nell’amicizia.
L’amicizia tra più o meno coetanei, in un periodo buio della storia italiana, combattuto con l’arma tenace e semplice di una forte sinergia animata dall’arte prima, e nella Resistenza poi; periodo di stenti economici, di pochi divertimenti, ma anche – per contro – di fervide curiosità; un periodo in cui la fame e la povertà hanno avuto il potere di generare una solida complicità tra ragazzi: così, dalla sensibilità di un Tano o dalla fama di un Pannaggi (già in Germania al Bauhaus e poi in Norvegia); dalle letture collettive ad alta voce offerte in una cantina agli analfabeti da chi sapeva leggere; come pure dai primi e timidi – ma fortemente cercati e voluti – contatti con gli artisti della Capitale, si sono originati i linguaggi artistici degli uni e degli altri, in una fervida sperimentazione tra pittura, poesia, musica, scultura e cinema (sì: anche cinema, ad opera di Amorino Tombesi, un altro di quel gruppo formidabile).
Stagione nata dalla vita di tutti i giorni e destinata inconsapevolmente alla storia.