Paolo Gervasi in questo saggio attraversa Cesare Garboli per descriverci come sia possibile rinnovare una visione della letteratura alleata della vita. In fondo già il titolo, che pone i due termini in forma di antinomia, è acutamente garboliano: un parallelismo irrisolvibile fra poli che si attraggono e si respingono, come accade alla vita che non si accontenta della superficie.
Per quanto sia vero quello che dice Berardinelli, che il titolo, un po’ ad effetto, contrappone “due entità ovviamente incommensurabili e inconfrontabili, perché la vita è un tutto mentre la letteratura è una parte” è perciò altrettanto vero che la letteratura esiste solo all’ombra (o come ombra?) della vita. Gervasi è consapevole del rischio («Ho dato a questo libro un titolo dissonante, sghembo, anacronistico nella scelta lessicale e nella formula nettamente oppositiva, irricevibile se intesa letteralmente […] Vita contro letteratura mi è sembrato un titolo sbagliato nello stesso modo in cui sbagliati appaiono quasi tutti i saggi di Garboli se guardati frontalmente») ma lo corre perché è il solo modo di rendere evidente la differenza di Garboli dal resto del gruppo.
Per questo il titolo, oltre che molto bello, è azzeccato, perché ci porta immediatamente a contatto con le frizioni fondamentali, perché ci suggerisce la genialità e insieme l’impossibilità (almeno nel recinto della letteratura circostante della nostra epoca) di replicare una tale esperienza critica. Garboli sembra essere un po’ quello che è stato J. McEnroe per il tennis, un talento puro, forse il più cristallino di sempre, ma così originale nello stile e nel metodo, così apparentemente indisciplinato e alieno dallo standard, da non poter essere insegnato o imitato. Nella letteratura contemporanea il “modo” di Garboli si può analizzare, sviscerare, ma imparare no.
C’è un passaggio di Gervasi che mi ha molto colpito e che spiega in poche parole perché ho amato questo saggio. È quando si sostiene che per Garboli: «la letteratura riguarda l’umanità in modo viscerale contro le mistificazioni che fanno della letteratura (della cultura) un dispositivo di occultamento». Tralascio, seppure la tentazione sia forte, la riflessione su cosa resterebbe della letteratura che si scrive oggi (ma oserei dire di tutto lo storytelling che informa le varie narrazioni che circolano in forme multi e crossmediali) se la passassimo attraverso il filtro dello “svelamento/occultamento”, del vero della vita e della sua falsificazione, in un’epoca che non conosce più la verità, ormai orientata al “sacro della percezione”. Mi basta il gesto, teatrale e garboliano anch’esso, di porsi di fronte all’umanità e con domande come questa: come può la critica tornare a mostrare il legame originario tra la letteratura e la vita biologica, esistenziale e sociale degli esseri umani? Qual è il ruolo della critica nell’era della mutazione di tutti i sistemi comunicativi?.
È l’esperienza, il corpo, di Garboli che rende autorevoli questi interrogativi. È questo gesto, a mio avviso, che supera, almeno in parte, le critiche che Marchesini (su Doppio Zero) pone al libro, quando individua l’errore di fondo di Gervasi nell’aver voluto inserire la comprensione di Garboli in una “cornice incongrua”. La cornice cui Marchesini fa riferimento è, in sintesi, il voler ricondurre «il suo ritratto in un’astratta cornice ricavata dalle teorie biopoetiche della letteratura a cui si stanno arrendendo i dipartimenti delle humanities». In realtà gli approcci teorici descritti, ad esempio, da Casadei nel suo recente Biologia della Letteratura possono favorire, accanto, è vero, a possibili scivoloni metodologici (non presenti in Gervasi), dei campi di indagine nuovi e tali da rendere giustificato il tentativo di comprendere il lavoro di Garboli, a posteriori, come quello di un creativo (di un creatore) di una narrazione originale a partire dal proprio corpo, dalla propria vita biologica.
Non si tratta quindi di sposare le humanities figlie degli anni ’60, di cui è bene diffidare come giustamente ricorda Marchesini, ma di aprirsi a quanto di originale e valido le neuroscienze propongono anche agli studiosi di letteratura. Esse possono aiutare a meglio capire perché la teatralità di Garboli, con o senza gesto che sia, risulti efficace, perché il suo “porsi di fianco” agli autori sia il grande insegnamento che questo critico ci ha lasciato. Vero, può non essere importante applicare le scoperte scientifiche sull’embodiment e i neuroni specchio ai fini di uno studio nuovo della letteratura o di un’acquisizione critica innovativa. Ma pure può essere che una biologia (e un’ecologia) della letteratura siano una strada utile per agganciare nuovamente il legame, e il conflitto vivificante, fra vita e letteratura. Per sfuggire alle paludi a volte bisogna attraversare territori insidiosi, discernendo in essi gli strumenti buoni posti accanto, mescolati, a “prodotti” dozzinali, frutto di mode e di pigrizie. D’altronde se è pur vero che il rischio dell’ibridazione è uno dei più alti, sappiamo che è anche l’unico che ci può portare a incontrare l’altro da noi, in ogni accezione possibile.
Gervasi, quindi, grazie a questa cornice, vera e propria bussola, può inoltrarsi nella vasta opera di Garboli e regalarci pagine meravigliose, mappe per noi lettori, come quelle su Penna. Il Penna ricostruito da Garboli è esemplare per rappresentare il suo modo di porsi di fronte all’opera e all’autore, nonché capitolo fondamentale, ci ricorda Gervasi, della sua contro-storia del Novecento. Garboli individua (e Gervasi ci restituisce) quale sia realmente la grande trasgressione di Penna: quel «miracolo di felicità» che esplode nel sistema ideologico del Novecento. Quel miracolo altro non è che riportare la vita, la strana gioia di vivere, al centro della poesia. Garboli, ci ricorda Gervasi, cerca in Penna come in tutti i personaggi della sua narrazione, quella forza e quella perversione che è «la capacità di vivere la malattia e la depressione con uno splendido abbandono da sano, respirandone a pieni polmoni come su un sentiero di montagna». Il suo disegno critico è l’inevitabile risultato di chi concepisce la «vocazione diagnostica» del critico come esercitabile solo «nella patologia di chi gli è più vicino», in una sorta di processo empatico che spii da vicino l’atto creativo, per «sorprendere il residuo di vita che gualcisce il margine della poesia».
Garboli ha reso presente, vivendolo nel proprio corpo e poi trasferendolo sullo «spazio separato della pagina», il punto di congiunzione fra due realtà, la cultura e la biologia, di cui siamo intimamente impastati. La vita in relazione alla letteratura è stata «la sua preoccupazione fondamentale» perché la vita, sia come intricata somma di fatti biologici che come trauma del nostro esserci nel mondo, resta «incomprensibile, impercettibile, se non trova il modo di tradursi in una forma scritta. Mentre la scrittura resta illeggibile se non mostra in trasparenza, come fosse uno specchio d’acqua, il fondale della vita che le dà forma».
Seduto accanto a Gervasi osservo l’orizzonte che con questo libro ha tracciato davanti a sé: la vita spesso cancellata dal testo, l’epoca del trionfo del post-umanesimo, la vittoria della superficie contro la profondità; osservo e penso, come lui, che sia possibile, se ci interessa, rilanciare il valore dell’arte e della letteratura solo se si torna «a mostrare la coimplicazione tra le forme della vita e le forme della cultura, la rilevanza dell’elaborazione artistica del mondo per le esigenze individuali e per i destini collettivi».
La ricerca della vita dentro la letteratura è la stessa spinta che consegna le nostre esistenze al bisogno di narrare, perché, come fosse un’ascesi infinita, raccontare è il nostro miglior modo di vivere insieme, di superare i confini, di cercare una ragione al dolore innocente. Esiste solo questo, alla fine.