2 novembre 2018
La morta è ineluttabile. La vita va solo verso una direzione, che ci piaccia o no. Mi ripeto questa storia senza gli attributi epicurei, stoici, e via via dicendo lungo tutta la storia del pensiero, delle religioni, della letteratura e dell’arte. Eppure, me lo ripeto con la stessa forza, con gli stessi colori definitivi di una massima di Seneca. La morte mi intimorisce, più di ogni altra cosa al mondo. Ho paura di morire, come ho paura di veder morire le persone a me vicine. Sono arrivato al punto che, col nodo alla gola, senza però tradire espressivamente nulla, dico a mia madre di non mangiarsi quel cioccolatino a fine cena, o di evitare quel maritozzo a colazione, o la farina bianca, o il parmigiano, o il ragù, o la pasta di grano duro, o il riso bianco, o lo zucchero raffinato (e anche lo zucchero di canna, e anche il fruttosio), e così, stilando liste su liste di pericoli per la vita. Naturalmente sono inascoltato, l’esistenza procede per senso comune, per piccole certezze personali, o convenzionali, piccole resistenze simboliche alla schiavitù della biologia.
Non credo in Dio, posso definirmi un materialista, in senso marxiano, ma nel senso ampio di una riflessione che dalla storia arriva a toccare la fenomenologia della vita quotidiana, ovvero le famose, e tanto care ultimamente, piccole cose. Non credo in Dio e quindi, si capisce, la morte mi mette in corpo quella fifa insanabile che ti devasta, che ti incupisce. Una volta, parlando con Filippo (ndr.: Davoli), son stato definito, più che pessimista, dolente. E in effetti mi son reso conto che, per paura di soffrire, ho imparato a provare dolore per tutto. Così anche il più misero gesto, il più lontano dalla mia sfera personale, il più lontano possibile persino dalla mia società, mi destabilizza. L’insonnia, o quella che potremmo definire la prima tappa di un percorso “filosofico-critico” che, chissà, mi porterà ad impazzire, mi dà il tempo necessario per dialogare con il buio, con il silenzio, letteralmente con me stesso che sono, come tutti, poco più che un cumulo di cellule messe lì ad autoriprodursi, copiandosi incessantemente fin quando il meccanismo, scarico, esaurito, o difettoso, non si ferma. Da lì in poi la morte.
Lo scrivo perché la voce non facilita le cose. La voce, che quasi sempre è imperativa, non mi calza bene; la scrittura, d’altronde, non è proprio una soluzione. Perché, e ci ho provato, non si può dividere la voce dalla scrittura, soprattutto se la scrittura è qualcosa a margine, qualcosa che veicola ai bordi qualche senso spacciato, forse, anche per verità. Ecco, la mia scrittura, in fondo, è questo tentare di sostenermi su qualcosa di esterno, di parziale, di totalmente periferico rispetto alla mia esistenza. In fondo, tolte poche spinte politico-filosofiche (e, lo ammetto, delle volte mitomaniache, della serie “vorrei essere il Davide che lotta contro Golia”), l’unico pensiero che mi assilla è quello della fine. Una fine che, con tanta pace per il buon Leopardi del Dialogo tra Tristano e un amico, non aspetto, non invidiando il morto, che è morto, esattamente come non invidio il vivo, che è vivo. Insomma, non mi sento di invidiare nessuno, piuttosto di compatire, in maniera anche paradossale e contraddittoria, chi vive troppo e chi vive troppo poco, così come chi muore presto o chi troppo tardi per i suoi gusti.
La morte (vorrei che questa parola facesse eco in ogni mio testo, in ogni riga) è qualcosa che mi ha invaso, che mi ha totalmente distratto da qualunque altra cosa. Di fronte a questo la cautela non è mai troppa. Vorrei essere Rimbaud, o Allen Ginsberg, o Kerouac che attraversa mezzo continente. Vorrei essere libero di una libertà che non sia mai aderente a nessuno schema. Eppure capisco, o mi sembra di capire, che l’unica forma di libertà reale è proprio l’inutilità della mia scrittura per me che, non facendomi bene e non facendomi stare peggio, sembra essere l’unica figura neutra, e quindi asettica, che non mi faccia deperire. La poesia, in qualche modo, mi aiuta a dissimulare il senso, vorrei dire, se mi è permesso, a lasciarmi dietro qualche cosa che non abbia valore, per poi non doverne piangere, una volta arrivata la fine.