La prima cosa che mi piace sottolineare, di questo libro, è il fatto che si tratti di un racconto. Ossia, quasi un apax, nella produzione narrativa della nostra contemporaneità: oggi, si sa, vige il romanzo e, nella sua fattispecie, quel genere ormai odioso che è rappresentato dal noir. Sembra che, o si scrive un noir o non valga la pena metter mano alla penna. Ma ancor prima di (de)cadere nel noir, le segreterie editoriali dei nostri principali editori hanno dato il via ad una lotta al racconto e alla poesia, in favore esclusivamente del romanzo. Contravvenendo, tra l’altro, a quella che è sempre stata la nostra tradizione letteraria migliore: prescindendo dalla Poesia, limitandoci alla Narrativa, basti citare Boccaccio per renderci conto che più di qualcosa si è inceppato, nel modo di concepire la nostra Letteratura.
Un racconto, dunque. Un racconto lungo (e non un romanzo breve). Roger Bichelberger – che è anche autore di notevoli saggi e romanzi, tra cui si ricordano le Notti a ritroso (“Les Noctambules”, tradotto e pubblicato eroicamente in Italia per i tipi di un piccolo introvabile editore che si chiama “Città armoniosa” nel 1978) – ci regala qui un delizioso racconto lungo, tradotto magnificamente da Daniela Fabiani, docente di Lingua e traduzione francese all’Università di Macerata, nonché traduttrice in italiano di Jeanine Moulin (Aracne, 2008) e Paul Gadenne (Solfanelli, 2013).
Anzitutto un plauso sincero alla EUM (Edizioni Università Macerata) che – come si diceva – in controtendenza nazionale decide di pubblicare un racconto lungo e non un romanzo (breve o lungo che sia). Poi un secondo plauso alla EUM che, tra i racconti, accoglie di buon grado la pubblicazione di un autore cristiano. La nostra critica letteraria del Novecento, come si sa, ha progressivamente obliato gli autori con un solido retroterra religioso, prediligendo piuttosto i nichilismi dell’epoca alle solidità del grande fiume della nostra tradizione; i pifferi della rivoluzione e della non-rivoluzione-purché-pifferi al senso Altro di autori come Eugenio Corti (scomparso da poco) o Fortunato Pasqalino, tanto per citarne qualcuno. E invece una bella tradizione letteraria, una solida lezione letteraria in ambito cristiano esiste ancora. Vorremmo dire anzi che resiste, in mezzo alle sirene del mercato editoriale e della dissoluzione (volontaria o indotta) della critica. E in questo, dunque, la Eum ha doppio merito.
Roger Bichelberger ci regala qui un racconto lineare nella forma, profondo nei contenuti. Si intitola Se fossi stato ricco. Un “se” che la dice lunga sull’opportunità di discernere, nei fatti della vita, imparando a leggere ciò che avviene non solo da una prospettiva ma anche da quella opposta. La prima è quella che la pubblicistica ci propina di continuo su ciò che conti davvero nella vita: la realizzazione sociale, il profitto economico, la libertà sessuale, l’autonomia sentimentale, e più in generale tutto ciò che possa contribuire all’emersione dell’io – ivi compresa l’arte (che è invece in realtà quella fastidiosa ed elitaria voce che si permette di chiamare a dire chi decide lei; e se ne serve, appunto, per “dire”; per “trans-mettere”, per “con-muovere”; e poi si libera del suo servitore fino a nuovo ordine; e il povero servitore lì, a perfezionarsi, a studiare, a limare ciò che – come scrive Dante nel Paradiso – “Amor gitta dentro”; e questo finché “gitta”, appunto; perché non è detto che continui a “gittare” ininterrottamente per tutta la vita).
L’altra prospettiva, invece; la prospettiva illuminata dalla fede, apre lo sguardo sui fatti senza pretendere di cambiarli a proprio vantaggio; scoprendo anzi che il vero vantaggio è proprio quello di prendersi di peso e viverli così come sono.
È questo che Bichelberger fa, nel suo racconto: ci racconta la sua esperienza di vita, ce ne fa dono con delicata ironia (ma profondissimo senso); ce la mette in mano con semplicità (e la semplicità è sempre la più difficile delle arti), rivelandoci le segrete ricchezze della povertà, della precarietà: di mezzi, anzitutto. Ma anche di sicurezze ideologiche, così fuorvianti quando la vita preme “in direzione ostinata e contraria” (De André). La povertà interiore, la beatitudine evangelica della povertà di spirito (di cui quella materiale è una facilitazione) apre invece lo sguardo dell’intelletto e della comprensione; ha il potere – non senza ridiscussioni e quotidiane fatiche, ovviamente – di illuminare l’esistenza nella sua interezza. Impedisce di arroccarsi in un pensiero debole (che è spesso fortemente debole e dunque fortemente forte…), permettendo a questo narratore eccellente di diventare metaforicamente “un mendicante di fiori”. Ossia, un raccoglitore pulsante di doni. Un grato abitatore della vita.
Non pare poco, in un tempo disarticolato come il nostro (e la disarticolazione, come sanno bene i medici, non è smembramento cieco: presuppone conoscenza, non è una pratica affidabile al caso, esprime una capacità chirurgica e dunque – nel nostro caso – una presumibile cinica volontà).
Il “mendicante di fiori”, in conclusione, può davvero significare un piccolo ma significativo tassello per la ricostruzione. Bravissima Daniela Fabiani ad essere stata ri-creatrice di questo delizioso testo, servendolo a sua volta. Come in una maternità rivissuta e al contempo priva di lacci, come è bene che sia per un traduttore che voglia trasmetterci l’anima di ciò che traduce senza tuttavia cedere alla tentazione di farla propria più del dovuto.
Note sull’autore
Roger Bichelberger (Alsting,1938) professore e scrittore francese, ha pubblicato, oltre a opere di varia spiritualità, molti saggi e romanzi. Membro di numerose giurie di premi letterari francesi ha ottenuto riconoscimenti importanti per la sua attività di romanziere, tra cui il Premio Tedesco “Peter Wust”, il Prix Henri Mondor, il Prix Roland de Jouvenel e il Prix Eve Delacroix assegnati dall’Académie Française, il Grand Prix du Roman della Société des gens de lettres. In Italia è stato tradotto e pubblicato anche il suo romanzo Les Noctambules, (Notti a ritroso, Città Armoniosa, 1978).