Turoldo, Giona e il Dio che è una rovina

di Gabriel Del Sarto

Nella raccolta Il grande Male, ora pubblicata in O sensi miei, Turoldo dedica un breve ciclo di poesie a Giona e al suo libro profetico, dal titolo Novena per Giona[1].

Giona lo conosciamo, è il profeta disubbidiente, e per questo estremamente simpatico e umano, che tenta di sottrarsi alla missione che Dio ha predisposto per lui: predicare la conversione a Ninive, a una città non israelitica, perché gli abitanti si possano salvare dalla sua collera. Giona le prova tutte, fugge a Ioppe e si imbarca per Tarsis per sfuggire alla chiamata di Dio.[2] “Giona prende la fuga – scrive H. Bloom[3] – perché non vuol essere il Geremia di Ninive; probabilmente pensa di fuggire davanti allo Jahveh di Geremia e di Giobbe, il Dio di coloro che soffrono.”

Alla fine, come sappiamo, Giona, dopo aver passato tre giorni nel ventre del pesce, si vede costretto a seguire il volere di quel Dio implacabile e sconcertante che è JHWH.  Si reca a Ninive e profetizza la sua distruzione. Ninive, continua Bloom “con suo grande scandalo sconforto […] accetta il suo messaggio, si pente ed è salvata, e questo lascia Giona di pessimo umore.”

Il quadretto finale, con lo sdegno di Giona per la pianta di ricino che Dio ha fatto crescere e poi seccare, è la degna, ironica e sublime chiusa di un piccolo capolavoro della letteratura biblica, che ci insegna che in fondo JHWH è libero di non dare seguito alle sue minacce e di impietosirsi, senza doverci poi troppe spiegazioni. La missione del profeta è riuscita, anche se costui non è d’accordo. Il Dio che viene mostrato in questa storia è un Dio aperto anche ai non israeliti, come sono i niniviti e come scrive sempre Bloom: “L’autore di Giona torna allo Jahveh benignamente sconcertante di J, uno Jahveh dotato di notevole ironia e di un forte senso dell’umorismo. […] Udiamo di nuovo lo Jahveh di J, incommensurabile ma sottilmente benevolo, sconcertante ma anche rassicurante, in questo rimprovero a quell’imitatore fallito di Geremia.”.

Turoldo nutre un sentimento di vicinanza, di fratellanza, con questo profeta insolito, così lontano dal nabi incarnato da tanti altri profeti maggiori. Per questo si cimenta con Giona: desidera raccontare una vicinanza di destini, una solidarietà impellente, anche lui con quel suo carattere ribelle e troppo sensibile. Novena per Giobbe è un esempio di quell’atteggiamento assunto dal frate-poeta nei confronti del testo biblico, che lo rende affine alla tradizione midrashica ebraica: il testo è lì, per essere tenuto fra le mani, per essere indagato, aperto, continuamente ridetto. Un testo vivo, da trattare alla maniera della tradizione midrashica.

Giona, piccolo profeta,
fratello mio e amico
di sventura, Giona
dove vai?

Non andare a Tarsis.
Tarsis è nell’Occidente,
L’Occidente è la notte
la tomba della luce:

Non andare a Tarsis,
Giona, o colomba
di Dio!

Fuggire, fuggire,
Dio è una rovina:

Fuggire dove?
Ovunque,
ma non in Occidente.[4]

Il consiglio è quello di non andare nella terra che ha preferito le tenebre alla luce, quell’Occidente che ha ucciso Dio e che, fra le altre cose, ha teorizzato una distinzione fra il mondo dello spirito e quello della materia, assolutamente contraria al pensiero biblico ebraico.

Ma prima di questa condanna storica, Giona è per Turoldo come un compagno di ventura che fugge da colui che è “una rovina”. Nel testo biblico di Giona non sta scritto che Dio è una rovina, si tratta di una aggiunta di Turoldo, una di quelle libertà necessarie per potersi davvero intrattenere con le sacre verità: la libertà del dialogo. Il poeta friulano pare non riuscire a darsi una spiegazione soddisfacente dell’accaduto,  per questo si insinua in un vuoto del testo sacro proponendo un punto di vista che è spiazzante: facendosi solidale con Giona, commenta il testo biblico e ne fa scaturire nuove sfumature e riflessioni, nuove possibili letture. Come a dire: “Anch’io, che pure ho scelto il sacerdozio, sono d’accordo con te, e il nostro è un Dio che trascina con sé alla rovina, una “inesorabile voce” che chiama ad un’avventura troppo grande”.[5]
Allo stesso modo nella parte IV:

Quando il mare e il vento e la bufera
e i marinai impauriti
eseguivano tutti
un unico disegno:

– perché bisogna,
è necessario,
è volere (oh,
vocazione!)
[…][6]

il profeta Giona

È il tema della vocazione a cui è impossibile scampare. Persino la natura e i pagani concorrono al disegno divino e alla fine della fuga di Giona. Tutti i nove componimenti turoldiani, brevi e brevissimi, si pongono, in definitiva, come una sintesi esegetica originale del libretto veterotestamentario. La stessa chiusura rivela, nel suo concentrarsi attorno ad un simbolo unico ed esatto, un desiderio di dire cose ulteriori, di suscitare, con analogie e simboli, nuovi legami.

Giona, piccolo
profeta, non ti è dato
neppur di morire:
o colomba di Dio.[7]

Tutto è nell’ultimo verso: la colomba di Dio. Il simbolo della colomba è, nel Nuovo Testamento, quello dello Spirito di Dio, legato alla ruah delle origini. Giona è indicato da Turoldo come una creatura prediletta da Dio, a tal punto da assimilarla al suo Spirito. Il nostro poeta è certo che JHWH avesse un debole per lui, che lo trovasse, diversamente dai commentatori della Bibbia di Gerusalemme, estremamente simpatico[8].

In questi testi, dunque, c’è il desiderio di comprendere le ragioni di Giona, per trarne un barlume di conoscenza sulla natura dell’azione di Dio. Dio può chiedere cose contrarie alla nostra indole, costringerci in qualche modo a compierle e poi persino rivoltarle in favore dei “pagani”, negandoci ogni immediata soddisfazione. Un Dio poco prevedibile, che pare giocare con tutti, soprattutto con Giona, il suo profeta, che si trova costretto a fare ciò che non vorrebbe, ma anche coi niniviti che, dopo lo spavento e la decisione di cambiare comportamento, sono facilmente perdonati, e infine con la natura che, nelle figure della tempesta del pesce e della pianta di ricino, appare materia nelle mani di un creatore irriverente.

Novena per Giona, in sostanza, sonda la natura della vocazione a seguire JHWH, il Dio insondabile eppure rivelato. Un mistero che Turoldo invece di svelare infittisce, facendoci cogliere come la chiamata derivi dagli abissi insondabili dei pensieri di Dio. E la poesia è lo strumento unico per dire qualcosa attorna ad essa, “perché” come scrive lo stesso poeta “la poesia non racconta ma suggerisce”.[9]

Cozzano qui due pietre focaie: il testo eterno e rivelato da una parte, la biografia di tutti dall’altra.

David Maria Turoldo

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[1] O sensi miei, BUR, 1990 (d’ora in poi OSM) pp.521-526
[2] Gn 2,1
[3] H. Bloom, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi, op. cit. Citazioni da pp. 32-33.
[4] Novena per Giona, parte I, ora in OSM p. 521
[5] Cfr. da Nel segno del Tau op. cit.la poesia Il cielo non risparmia nessuno ora in OSM p. 669
[6] Novena per Giona, parte IV, ora in OSM p. 523
[7] Id. p. 526
[8] Cfr. La Bibbia di Gerusalemme, pag 159: “Qui ognuno è simpatico, i marinai pagani del naufragio, il re, gli abitanti e perfino gli animali di Ninive, ognuno, salvo il solo israelita che sia in scena – ed è profeta – Giona!”.
[9] Da Mie notti con Qohelet, op cit. p.45

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