Ho sempre più associato, con il tempo e in assenza di uno studio sufficientemente vasto da permettere maggiore padronanza e precisione, il vuoto con un’idea di attesa, attesa di qualcosa che si manifesti, di un’eccezione significativa, di uno squarcio, di una possibilità se non ancora di salvezza quantomeno di liberazione (dall’ingannevole, dall’apparente), di gioia.
La gioia di Caproni, ma anche quella paradossale, antichissima, che nasce dallo sguardo e dalla parola presa da Qohélet.
È proprio il vuoto che, come un barbaglio balena nella fragile ed evanescente consistenza di ciò che si mostra, dello “schermo di immagini”, del montaliano “inganno consueto”, ad assumere dura, assoluta consistenza là dove le cose sono destinate a sbriciolarsi, si annientano (“non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?” scriveva Sereni). Il vuoto si avvicina al mistico ed è anche lo squarcio che si apre (per usare le parole di un personaggio pirandelliano) “nel cielo di carta del teatrino”. “Il vuoto dietro di me” nel celebre Osso: la scelta, la consapevolezza di voltarsi fissando il vuoto, ma allo stesso tempo la volontà e la consapevolezza di non farsi risucchiare, annullare (proprio in senso totalmente mistico) e dunque di raccontare, dire, la visione del vuoto, di dargli una forma, di conferirgli quella fisicità, quella matericità (viene in mente in questo senso, anche se si potrebbe discutere sulla pertinenza dell’associazione, il “ricchissimo nihil” di Zanzotto o, ancor prima, il “solido nulla” di Leopardi) che è prima di tutto propria della parola (poetica).
Lo strappo, lo squarcio avvengono proprio sul vuoto (associato al nulla, sempre in Forse un mattino andando) che acquista in questo senso valore conoscitivo e si dà concretamente come accensione, bagliore. Vuoto, nulla rappresentano come una crepa nel linguaggio, ciò a cui le parole possono solo, in maniera asintotica, approssimarsi; ma è proprio dal vuoto, nel vuoto e per il vuoto (rispetto alla sua vasta area semantica, ma anche ‘psicologica’) che le parole stesse possono ancora sprigionare forza e luce (questa, mi è sempre parso, è la “chiarità che salva” di cui scriveva Remo Pagnanelli in Preparativi per la villeggiatura, che illumina le sabbie mobili, fatali, le zone buie, bituminose dell’insignificanza). In questo senso il vuoto è un catalizzatore paradossalmente positivo, vitale. Vicino alla Grazia (anche qui, Montale, nel passaggio alle Occasioni). Il vuoto “dietro di me” prepara la Grazia, la manifestazione. Si fa vuoto perché la Grazia si dia e si dia, infine, quel senso provvidenziale di estraneità (al linguaggio stesso, codificato e logoro) in cui la poesia si manifesta. Come di esilio.
L’esilio di Dante, oltre che tema che interviene sulla materia del canto, è presupposto che interviene sul linguaggio stesso innervandolo, orientandolo, ‘spostandolo’. L’esilio (o l’essere straniero) avvicina ad una condizione di vuoto. Fa il vuoto. Il vuoto, proprio in questo senso, è generativo, sostanzia la poesia e la lingua (sempre straniera) della poesia. La sua percezione, quando si fa sillabe sul bianco e verso, diviene liberatoria e rovescia l’angoscia nel suo opposto. Dicevamo Montale, ma anche Caproni, all’inizio. Si potrebbe citare, più vicino a noi anche il De Angelis di Millimetri (canto liberatorio di una presa di coscienza spietata e assoluta di estraneità e di perdita). Come se il “terrore di ubriaco” potesse trasformarsi in gioia, sempre finché si ha la possibilità, la ventura, di raccontarlo, di dirlo.