AGATONE: «Vieni qui, Socrate! Distenditi vicino a me, in modo che, stando a contatto con te, possa godere anch’io di quella sapienza che si è presentata a te mentre stavi nel vestibolo. È chiaro infatti che tu l’hai trovata e la possiedi. Altrimenti prima non ti saresti mosso»
SOCRATE: «Sarebbe davvero bello, o Agatone, se la Sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci accostiamo l’uno all’altro, come l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a quella più vuota!»
Il brano qui proposto, tratto dalle prime battute del Simposio di Platone, vorrebbe fregiarsi della funzione di armatura di chiave. Vorrebbe, se non altro, indicare in maniera vettoriale il discorso, condurlo verso una linea senza concluderlo; semmai per lasciare aperta una traccia, un’eco. In questo breve scambio Socrate, arrivato in ritardo al banchetto a cui Agatone lo aveva invitato, preclude l’accesso ad una visione semplicistica della sua Sapienza; ben lontana dall’essere un possesso trasmissibile, un fluido da travasare, questa si presenta (e il dialogo platonico lo mostrerà con rara lucidità e bellezza) come uno scavo, una ricerca di un’assenza di qualcosa che si ama.
Un desiderio propulsivo che porta il desiderante a ritrovarsi nel viaggio dentro di sé, ottenendo una diversa qualità dello sguardo svincolata da ogni fine pratico. Un viaggio senza dubbio consonante alle esperienze della mistica, ove si esce da sé per andare alla ricerca di quel che alla fine si rivela essere la fibra più intima della propria persona.
La frequentazione di questo testo da parte di Paul Valéry è comprovata dal suo dialogo del 1925 L’anima e la danza nel quale i personaggi sono Socrate, Fedro ed Erissimaco: tutti e tre sono fra coloro che prendono parola durante il convito platonico. Si vorrebbe qui tentare una perlustrazione della ricezione di questo testo in uno scritto comparso in Varietà (Paul Valéry, Varietà, a cura di Stefano Agosti, SE, Milano, 2007, pp. 275-302). Raccolta di scritti “essoterici” dello stesso Valéry pubblicata in cinque volumi fra il 1924 e il 1944, lasciando levitare, mentre si procederà ad una evocazione per sommi capi del brano, la funzione centrale della figura (e del metodo) di Socrate nella trama del pensiero del francese. Il testo in questione è intitolato Poesia e Pensiero astratto, tratto da una conferenza del 1939 in cui l’intelligenza di Valéry, tesa costantemente a saggiare, nel movimento che essa stessa produce, il suo funzionamento, si esercita alla ricerca del fondamento teorico del cosiddetto “stato poetico”.
Contraddicendo nelle prime battute l’opposizione di comodo “Poesia vs Pensiero astratto”, ove con il primo termine si intende «comunicare l’emozione di uno stato nascente (e felicemente nascente) di uno stato creativo» e con il secondo tutta quella serie di pratiche del pensiero tese al rigore scientifico, al metodo, il poeta-scrittore-scienziato-(anti) filosofo Valéry propone una visione alternativa in cui i due termini che, reimmessi nel circuito del pensiero a partire dall’unico fondamento valido (se stesso), si troveranno sullo stesso piano. Poesia e pensiero astratto troveranno in questo saggio la giacenza sul comune fondo della possibilità dell’intelletto umano di praticare, di agire, di conoscere se stesso.
La poesia è un’arte del linguaggio e come tale composta di parole. Nel linguaggio al suo stadio normale, quello della comunicazione fra persone, le parole configurano uno spazio temporaneo di organizzazione reciproca fra suono e senso; la forma e il contenuto semantico della parola vengono veicolati dalla voce che trasmette semplicemente un messaggio. La parola meramente comunicativa si associa all’idea del denaro: «il cui cosiddetto valore richiede l’oblio della sua vera natura, che è quella d’un pezzo di carta regolarmente sporca». All’idea di trasmissibilità (sottesa al discorso di Agatone nel Simposio) si lega quella di perdita completa del mezzo di trasmissione, della parola; capire un discorso, ossia comprendere il messaggio concettuale insito in questo, fa deflagrare la parola, la rende superflua e dunque subito cancellabile. Soffermandosi però sulle singole espressioni verbali, per esempio “Tempo” o “Vita”, sgretolati gli strati di senso e significati secolarmente sovrappostisi sopra la semplice struttura fonica, il parlante si trova nella strana condizione di cadere in un abisso, di essere vittima di uno «strumento di tortura della mente».
È in questa situazione che lo stato poetico accade; obliata la peculiarità della parola comunicativa, ovvero l’essere compresa e dimenticata, il parlante si trova costretto a riflettere sul suo linguaggio, sulla struttura di quello strumento che in realtà lo informa. Lo stesso grado di concentrazione, di riflessione e di attrazione avviene quando la poesia crea legami inediti fra parole, “musicalizzando” d’un tratto le combinazioni verbali sopite. L’aspetto fonico, la particolare inflessione del tono, il timbro, la vibrazione, in sostanza la parola privata del suo messaggio semantico, vengono a porsi in primo piano nella scena dell’udito; dall’altro lato il Pensiero astratto riconosce in quei suoni dei significati e tenta una comprensione del tutto. L’emozione poetica gravita nel campo creato da queste due polarità o, secondo l’immagine di Valéry: «è come un pendolo: supponiamo che una delle due estremità rappresenti la forma, il carattere sensibile del linguaggio – in una parola la Voce in atto; e che l’altra, simmetrica, rappresenti invece tutti i valori significativi». Tra la Voce e il Pensiero, tra il Pensiero e la Voce oscilla il pendolo poetico; non esiste dunque un’opposizione fra forma e contenuto. La poesia è la pratica del linguaggio nella sua integrità, il movimento che nasce come Voce, richiamo magico e desiderio. È durante questi stati che «la vita s’affaccia con stupore su di sé», che l’Io viene sorpreso nella magia dei suoi processi mentali. La voce ritorna come un’eco a ricordare la usa presenza, si rende necessaria e fondamentale; un verso è un verso, non la sua parafrasi, non la sua scansione metrica, non l’analisi degli accenti. La Voce vuole essere ripetuta per mettere in atto la vita nel suo svolgersi priva di restrizioni.
La poesia così si configura come ricerca della sorgente del linguaggio, della sua carica magica che non ha nulla a che vedere con la prassi comunicativa; ed è in questo scavo che chi cerca si ritrova in uno stupore inconsueto, vero.
«E tutto questo tramite […] quel linguaggio comune da cui dobbiamo estrarre una Voce pura, ideale, capace di comunicare […] l’idea di un io prodigiosamente superiore all’io stesso». Vengono in mente i versi di Mallarmé dedicati alla memoria di E. A Poe, quei versi in cui forse veniva evocato in poesia il ritratto del poeta intento a «Donner un sens plus pur aux mots de la tribu» («Donare un senso più puro alle parole della tribù»).
Il percorso socratico di approfondimento dell’io tramite un sapere sviluppato in una pratica non svincolabile dall’atto viene qui declinato in maniera originalissima, legando, come in Heidegger e nell’ultimo Rilke, il pensiero al pronunciamento della parola poetica. Un tentativo di mettere in prosa lo stile di una Voce che pervade l’essere, che si figura come sua più piena potenzialità.