“Mercuzio si accascia al suolo in un tripudio di velluti e ghinee nella speranza che il suo amico Romeo sappia, nei giorni a venire, vestire con ironia tutte le mises che lui gli lascerà” . E che diamine!, diamo a Shakespeare quel che è di Shakespeare. Se non mi trovo di fronte ad un falso clamoroso, secondo il prezioso incunabolo dal quale ho attinto il periodo testé sopra trascritto, con questa frase, lo smargiasso autore elisabettiano avrebbe, in una delle prime stesure, dopo tutto quel noioso polemicare e fiorir di lame, congedato Mercuzio nel momento del di lui trapasso. E allora rientrerebbero tra i classici anche i titoli che ci tramandano la forza dell’indagine sociologico-antropologica con la quale una giornalista di Repubblica, in occasione dell’ultima kermesse Milano-Moda-Uomo, a forza di “l’uomo di Cucibellotrallallero veste con ironia” e altri titoli così, aprendosi sulla testa, come un uovo sul mucchio della farina per le tagliatelle, il trattatello Pirandelliano al proposito, ci rassicura che, come si è potuto vedere a Milano in tempo di sfilate, da una collezione all’altra “va di moda l’intellettuale”. E nella mente, mi riappare, nel fascio di luce di questa garanzia, un dimenticato anticipatore di questo tipo di convinzioni che sbrogliano l’annosa matassa di congetture sul concetto di “essere o divenire”, ovvero quello che tutti credevamo il più cretino degli attori teatrali italiani che ci prometteva meraviglie col suo puntuale “vedrete!, quando sarò diventato un genio…”.
E dunque, tutti tranquilli, adesso, quanti si preoccupavano dell’imbufalimento delle linee di pensiero!, si rassicurino quanti temevano il dilagare del demenzial coatto: che nelle sue punte massime, tra l’altro, lo giuro, mi piace pure. Stiano tranquilli quanti vivevano terrorizzati dalla presunta caducità del pensiero esistenziale di questi giorni! Ormai è accertata la soluzione al problema: un paio di culotte un po’ così, due giri manica comme il faut, un orlo qua e un altro là, una marsina color zafferano e un bavero color ciclamino ed eccolo qua, il nuovo intellettuale all brand new, nuovo di zecca, non più solamente sulla rotta Lodi-Milano né solamente con la bella Gigogín, ma sprofondato in una poltrona business class sul jet Milano-Parigi-Londra-New York pagata con i frutti del fluire del suo pensiero che sgorgando da stivaletti pitòn-orsetto, cappellini avant-retró, polsini d’Artagnan-Kundera sciorina meraviglie mentr’ il s’en va, sottobraccio a chi sapremo poi chi, da un party internazionale all’altro in sella alla stessa ironia della quale si ammantava nelle passerelle milanesi del pret à porter proprio come Buffalo Bill stava a cavallo di un caval!
Non sono riuscito a capire una cosa, però, e ancora cerco mi domando: è vero che in questo periodo ci si può anche chiedere se hanno fatto più vittime gli olocausti di tutte le epoche, passate e presenti, in tutto il mondo, o l’imbufalimento delle moltitudini che ciclicamente ha davastato le società che, come fenici goethiane, sono poi rinate dalle loro ceneri per migliorarsi, progredire nonostante tutto? Oh, come avrei voluto, già allora, che Pasolini, dopo essersi ben benino organizzato l’intuizione, la visione anticipata del peggio che inevitabilmente sarebbe dovuto accadere, fosse riuscito a prevedere, scorgere lontani e indicarci sia pure larvatamente, anche gli esiti della rinascita che dovrà esserci, che forse, quasi sicuramente, dopo questo periodo che si abbuia che ci è stato dato da vivere, noi non vedremo ma ci sarà; e anche se, pure, ci sarà dato, almeno, intravederla, forse faticheremo a penetrarla perché sarà sicuramente diversa, dal nostro vivere, nella grammatica e nella sintassi dell’esistenza. Una rinascita che dovrà esserci, però, caro amico della Guadalupa che mi hai scritto quella deliziosa letterina nella quale mi chiedi se ho qualche palandrana patchwork o redingote regimental-guerra-sul golfo-ma scherzosa-tanto ironica dismessa da mandarti, se non vorremo ritrovarci come Zira e gli altri a guardare i resti della statua della Libertà su una spiaggia del pianeta delle scimmie.
Per mantenere una parvenza di ironia, a volte, comicamente mi infilo i miei vestiti rivoluzionari pieni di acari delle epoche recenti, e con indosso quegli attestati di impegno ed intelligenza, quelle barricate tra me e i sogni chiamati utopia di una realtà che non saprò mai capire se si sia almeno in parte realizzata, mi siedo sullo scoglio dove si sedeva lo scemo del mio paese col quale sono cresciuto e guardo lontano come lui e forse, dimenticandolo subito, vedo quello che vedeva lui. E così, nell’attimo di pausa tra uno sciabordio e l’altro delle onde, vigliaccamente fuori da ogni responsabilità, mi sento il diritto di chiedermi, velocemente, già pronto alla fuga da una risposta, se mai ci fosse, se mai ci sarà, se ha fatto più vittime la produzione di acciaio per cannoni o il dono delle fedi alla Patria. Poi, mi guardo il giro manica, il collo del giaccone un po’ buttato lì, le toppe di velluto sui ginocchi dei pantaloni di cavalry, il polsino di cachemere-shetland che si abbandona debosciato sfilacciandosi verso le dita e mi dico: “cretino!, baciati, stupido! E smettila di fare tutta quest’ironia!”
E certo! Prendiamola sul serio questa bilancia dei pagamenti! Entro nel bar del porto dove nelle loro tute al contempo selvagge e ironiche, con i saldatori che come indicatori stradali sbucano dai tasconi sulle cosce, sono tutti così up-to-date, à-la`page, come si diceva prima anche nelle famiglie aristocratiche russe. Mi rallegra il profumo del caffè, dilagante, e col procedere del mio delirio mi tormenta la martellante ingiustificata domanda: “Ma chi tira avanti il Paese, allora? I munti? I mungitori?”. E se non avessi il cuore rimpicciolito dalla paura di distoglierla, così, da una sfolgorante carriera di modella, proporrei: la mucca di Vipiteno al governo!
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Unico cantante jazz della sua generazione, Lele Cerri alla fine degli anni 70 forma un gruppo con i migliori giovani jazzisti romani ed ha residenze fisse nei principali jazz club di Roma. Anche se lui non ama definirsi cantante jazz, ma “uno che canta canzoni con accompagnamento jazz”, la rivista Musica Jazz lo chiama a rappresentare il jazz vocale italiano. Alla fine degli anni 70 la Rai gli riserva un programma radiofonico in diretta e Canale 5 gli dedica una puntata del programma musicale Pop Corn. Seguono altri speciali radiofonici e televisivi a lui dedicati. Autore di più di trenta brani per Mina, con cui ha ha anche duettato e di cui cura il sito internet e la pagina facebook, Cerri ha recentemente formato un gruppo con giovanissimi talenti da lui scoperti, e da tre anni è il vocalist della Galaxy Big Band di Bruno Biriaco. Penna brillante e felicissima, è stato fin dal primo numero l’insostituibile corsivista della rivista cartacea “Ciminiera” (2002-2006).