Il teatro musicale vive e si nutre, com’è evidente, di un enorme e affascinante paradosso. Nella sofisticatissima macchina dell’opera, che sempre meriterebbe di essere osservata nella sua interezza e ‘sezionata’ minuziosamente livello per livello, il canto rappresenta senza dubbio il baricentro delle forze sprigionate in scena, il dato capace di incrementare i significati verbali e scenico-drammatici, talvolta persino oltrepassandoli e facendosi significato esso stesso. E’ proprio il canto a significare il seducente paradosso che per quasi quattro secoli porta l’opera (in tutte le sue declinazioni di ‘genere’, si badi bene) a rappresentare, forse, il vertice dell’espressione artistica della civiltà europea: un paradosso che permette –sintetizzando- ai personaggi in scena di cantare i propri ‘affetti’, proiettandoli quindi in una dimensione (drammatica, linguistica e temporale) completamente altra rispetto a quella del teatro di parola. Una dimensione dove, per l’appunto, la declamazione e la fisicità (da una parte) e il discorso musicale (dall’altra), arrivano ad adoperarsi in un reciproco servizio, in un tremendo infittirsi di implicazioni, relazioni, variabili: producendo, quindi, una complessa fenomenologia di eventi simultanei la cui gerarchia, però, finisce sempre col privilegiare il dato canoro. Eccolo, il paradosso, che persino Brecht (tra gli altri) volle smascherare nei suoi scritti teatrali degli anni di Mahagonny: nell’incredibile universo del teatro in musica, gli uomini cantano il proprio dolore, cantano prima di uccidere un altro individuo, cantano mentre muoiono essi stessi.
La croce di un canto addolorato piega la schiena di molte madri sulla scena del melodramma europeo attraverso i secoli. Ma a partire dall’ottocento (adoperando le cronologie con molta cautela..), laddove le dimensioni del conflitto e dell’inconciliabilità dei drammi individuali diventano simboli par excellence del tragicoe l’opera si lascia ri-fecondare da un rinnovato impulso ‘centrifugo’ oltre la compostezza morale e formale delle opere settecentesche, i personaggi dei drammi musicali inaugurano la loro corsa precipitosa verso il baratro delle solitudini, dei tradimenti, degli abbandoni: nell’essere madre di molti personaggi femminili le solitudini e gli abbandoni diventano radicali, insanabili. Profondissimo il baratro. La maternità, che consacra l’esistenza femminile a un’esistenza ‘altra da sé’, costruisce nella donna un nuovo universo di significati, di passioni, di affetti; ne legittima il sacrificio, ne problematizza l’agire, ne rende profondo (e oscuro agli altri individui) il dolore.
Quando compone Norma, nel 1831, Vincenzo Bellini ha appena trent’anni: eppure l’opera che lo renderà celebre, e che vedrà la sua prima soltanto l’anno successivo alla Scala, porta in scena una donna gigantesca e disperata, un cuore complesso e smisurato. L’epoca è quella della dominazione romana in Gallia, e Norma è una sacerdotessa che ha infranto i propri voti per cedere ad un amore vano, l’amore infedele di un soldato romano. Un amore che prima di rinnegarla e tradirla le ha abbandonato in grembo due figli, lasciandola annegare in un tumulto di affetti contrastanti, tremendi. La vergogna, l’umiliazione e il rimpianto le schiacciano il cuore e finiscono per armarle la mano contro le sue creature, novella e tragica Medea: all’inizio del secondo atto la vediamo china sul giaciglio dei due giovinetti, pallida e fuori di sé, pronta a sacrificarli per bruciare, nel loro sangue, la sua stessa colpa (Dormono entrambi.. non vedran la mano), e vendicarsi di Pollione, che dopo averla sedotta, le ha preferito Adalgisa, un’altra consacrata ancor più giovane di Norma. Al loro destarsi dal sonno però rinsavisce, riconoscendo in loro il proprio sangue e i propri occhi. La madre è più grande della donna ferita. L’amore nudo e senza difese, l’amore tenero per i giovinetti produce una forza nuova, un coraggio inatteso: Norma salirà sul rogo e sacrificherà se stessa, rinunciando a qualunque proposito di vendetta. E’ sorprendente come Bellini, ancora giovanissimo e certo ignaro di ciò che la maternità potesse significare, sia riuscito ad intuirne mirabilmente il mistero, avvertendone la drammaticità e la forza, fino a farne un vero e proprio monumento musicale.
Poco più di vent’anni dopo, nel 1853, sedotto dalle tinte fosche (quasi grand-guignol, come si sarebbe detto più avanti) di un dramma di Gutièrrez, Verdi porta in scena una storia di sangue, vendetta e rivalità in amore. Nihil sub sole novi per un melodramma in pieno ottocento: eppure nel Trovatore, il personaggio dotato di maggiore complessità e interezza, che esula dal famigerato ‘triangolo’ di rivalse e gelosie, è un’altra madre. Azucena, zingara della Biscaglia, fallendo nel tentativo di vendicare la madre, per una tragica fatalità aveva gettato tra le fiamme il proprio figlio ancora in fasce, scambiandolo per quello del vecchio Conte (contro cui l’ira della gitana era rivolta): ma l’infante sopravvissuto, Manrico –è lui il trovatore, l’eroe del dramma- era stato da lei cresciuto come se fosse suo. E quando Azucena gli rivela l’assurda verità, non può non rivendicare quello che è stato, in ogni caso, un amore autentico, al di là del sangue (..Madre, tenera madre non m’avesti ognora?..). Ad Azucena, perfetto archetipo del conflitto irrisolto nella drammaturgia verdiana, nel supplizio inflitto a Manrico nell’epilogo, sarà negata la maternità per la seconda volta: capace di ospitare in sé sentimenti opposti e ugualmente laceranti, divisa tra un odio mai consumato e la tenerezza materna, la zingara sperimenta la croce di sopravvivere per ben due volte alla creatura amata. E, impotente pur nell’incrollabile fierezza, gli sopravvive proprio assistendo al compiersi, fatale e inspiegabile, della vendetta antica.
Un’inguaribile tentazione per il baratro e per l’auto-distruzione sembra cogliere molti dei personaggi del controverso e affascinante teatro pucciniano, le cui creature si vedono preclusa qualsiasi riconciliazione sulla terra. E, quasi sempre, anche in cielo -dove, invece, sembrano volgere un ultimo sguardo di speranza le figure dei drammi di Verdi. L’incoercibilità delle ossessioni e di una sorte quasi sempre già annunciata sono il vero motore delle tragedie di Puccini. Cio-Cio-San (Madama Butterfly, 1904), la giovane geisha che si offre senza esitazione a un amore sconosciuto d’oltremare, e che, scoperta l’inconsistenza del sentimento dello yankee vagabondo si toglie la vita dopo aver abbracciato un’ultima volta il piccolo figlio da questi avuto (..Addio! Piccolo amor! Va’. Gioca, gioca..), è la voce mesta e discreta di un dolore senza facili eroismi, un dolore consumato nella rinuncia silenziosa. La voce di una femminilità screziata nel suo sbocciare, vissuta d’un tratto nella maternità appena goduta, e subito sacrificata. La maternità che sperimenta nel dolore il suo significato ultimo; la maternità come amore e morte, un anelito misterioso che quasi conosce le stesse dolcezze e gli stessi eccessi di quello erotico-sentimentale, il medesimo amor mortis che getta Suor Angelica (atto unico del 1918) nelle braccia della Vergine, nel desiderio fulminante di riabbracciare il figlioletto morto prematuramente, e la cui miracolosa apparizione trasforma il suicidio della devota in un abbandono estatico e gioioso.
Il teatro del novecento, il novecento della crisi e delle avanguardie, offre lo spettacolo ingrato della solitudine e della violenza. L’abbandono delle macro-forme musicali reca, in nuce, il sigillo di una rovina progressiva, trasversale, che nei due conflitti troverà un definitivo compimento. Un’opera sopra le altre, probabilmente, fotografa fedelmente lo scenario europeo a cavallo tra le due guerre: Wozzeck (1925), di Alban Berg, dal dramma teatrale Woyzeck, di G. Büchner, del 1837. Da questo oscuro capolavoro, in cui Berg realizzò l’impensabile conciliazione tra antico e nuovo, tra frammentarietà e organicità della forma, sembra lanciare il suo grido soffocato una delle ultime madri del grande teatro musicale europeo. La prima scena dell’atto terzo è allucinante, glaciale: Marie, moglie infedele del misero soldato (Wir arme leut!..) Wozzeck, regge in braccio il loro bambino, mentre legge dal Vangelo l’episodio dell’adultera. Sembra infastidita dalla povera creatura: la respinge, poi la richiama a sé. Gli racconta poche righe di una favola buia, senza lieto fine. Sembra che la piccola creatura non le appartenga, ma le sia accomunata solo da un destino tragico, già presagibile nelle parole della favola lasciata a metà. Wozzeck, ossessionato dal tradimento di Marie e dalle vessazioni subite, la ucciderà, di lì a breve, per poi perdere la vita lui stesso, annegato. Privando suo figlio di un padre e di una madre. Poco dopo, nella scena conclusiva, ‘Du! Dein Mutter ist tot!’ ( ‘tua madre è morta!’) grideranno al piccolo gli altri bambini. Il piccolo innocente continuerà a giocare, ignorando il dramma spaventoso di una violenza senza significato, di un destino pronto a ripetersi.