Babele. Un paradigma efficace

di Filippo Davoli

I
Babele non si afferra mai in tutta la sua portata. Ci si limita, generalmente, a considerarla come un affronto a Dio, a cui quest’ultimo risponde con una memorabile reprimenda.
Ma Dio è padre, non è un mostro. Non nutre invidia nei confronti delle Sue creature. È la menzogna primordiale a presentarci Dio come un mostro che non ama l’uomo, ed anzi – siccome lo teme – lo limita dentro una storia a termine.
Leggendo con attenzione il passo della Genesi che racconta Babele, ci si accorge che l’obiettivo primario degli arditi costruttori era prioritariamente quello di evitare la dispersione del popolo, mettendolo invece nella condizione di poter vivere unito e parlando una sola lingua.
Che c’è di male in questa unità sigillata da un’unica lingua? Molto.

II
Dio ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza, non solo dotandolo di un’anima oltre il corpo (insieme al corpo, distinta dal corpo), ma soprattutto confermandogli la libertà: di amarLo oppure no, di obbedirGli oppure no, di riconoscerLo oppure no.
Dio non stupra l’uomo, per amarlo; non lo prende con la forza, non lo costringe. Permette – se l’uomo lo rifiuta – che questo parli un’altra lingua: che, cioè, non vi sia comprensione nella comunicazione; che, ancora, non ci sia relazione.
Dio permette che l’uomo divenga egoista. Permette – non senza rammarico – che l’uomo, rompendo il legame comunicativo/relazionale con il Suo creatore, tocchi la morte, faccia realmente un sacramento in cui – tagliando la condotta del suo unico ossigeno, che è lo Spirito Santo, l’amore di Dio, il flatus vitae – sperimenti che, al di là della Vita, non c’è un’altra possibilità di vita, bensì la morte.

III
C’è, nella Scrittura, un personaggio che è l’antitesi di Babele: Abramo.
Abramo è di Ur; parla già di suo un’altra lingua, ma è una lingua morta, una lingua che non salva, che non lo salva: Abramo è un condannato a morte; dal suo fallimento esistenziale (niente figli, niente terra dove essere sepolto) e nessun senso a quanto gli accade; la sua lingua non chiarisce il perché della sua esistenza.
C’è bisogno di un’irruzione che lo “di-verta”: qualcosa che lo attragga con una promessa tangibile, invogliandolo a mettersi “in gioco”. Occorre che Uno accetti di parlare la sua lingua per portarlo, pian piano, a far propria la lingua di Dio.
Ma l’invito parte da una richiesta preliminare esclusiva e escludente: Abramo riceverà il figlio e la terra come dono gratuito di Dio, a patto che accetti di uscire dalla sua terra, dalla sua casa, dai suoi affetti, dalle sue sicurezze, dalle sue abitudini.

IV
Perché si manifesti l’amore salvifico di Dio, Abramo deve uscire ed allontanarsi; l’esatto contrario dei costruttori di Babele. Allontanarsi per aprirsi ad un’altra lingua; decostruirsi mediante l’allontanamento, per poter essere ricostruito da Dio.

V
Quando Dio crea il mondo, non lo crea monolitico, ma a coppie di apparenti opposti che – incontrandosi – possano unirsi, salvaguardando ciascuno la propria diversità.
Dio ha creato il mondo come entità dialogica e compenetrantesi: il giorno e la notte, l’acqua e il fuoco, l’uomo e la donna, la voce e il silenzio, la vita e la morte, etc.
Nessuna di queste opere è negativa: sono tutte uscite dalla mente di Dio, sono Parole di Dio che conservano una loro vocazione primigenia; la propria identità chiamata a parteciparsi alle altre identità.
Sono, in altri termini, parole che si parlano reciprocamente, in cui l’unità non è data da una medesima lingua, bensì dall’amore necessitante che le spinge a parlarsi.
L’unità, allora, non è una torre che si innalza fino al cielo rigidamente arroccata su sé stessa, quanto piuttosto un braccio orizzontale che si allarga da un opposto all’altro, ricongiungendosi al suo centro: lì dove riposa il capo della Parola fatta carne e donatasi per amore.

Pieter Brugel il vecchio, La Torre di Babele, 1523

VI
C’è un altro aspetto che rischia di essere frainteso: quello di convincersi che la diversità delle lingue generi rumore e che, contemporaneamente, una sola lingua sia segno e sigillo di un’armonia, di una bellezza che fonda sul silenzio. In realtà è esattamente il contrario. Se la torre di Babele avesse raggiunto lo scopo unificante di tutti i popoli della Terra sotto una sola lingua, avremmo assistito a un disperante e ossessivo monologo; niente che provenisse dall’Alto, come la luce o la pioggia, ma solo dal basso; dai processi angusti di una logica cieca, dai moti a senso unico delle spinte di un solo ego.
Babele è un onanismo: i suoi frutti non danno e non hanno vita (da offrire), sono parole morte come gli idoli di pietra che non avevano saputo aiutare Abramo. Il seme degli onanisti non porta frutto, non feconda, muore nella sua volontà di autocompiacimento, cade nel nulla, si disperde, secca. È una lingua solitaria e fine a sé stessa, uno spreco, un rumore.
E’ invece la diversità delle lingue che impone la necessità dell’ascolto di un altro-da-sé, qualcuno che si intuisce prossimo ma ancora non si conosce e che, dunque, per rivelarsi, chiede un’attenzione, una disponibilità, un’apertura, una concessione, uno spazio, un vuoto, un silenzio. È una mancanza percepita/esperita ad alimentare/solidificare l’apertura al dono.

VII
Non si tratta di tacere. Si tratta di fare silenzio, che è tutt’altra cosa. Tacere è un po’ “non voler dire”. Fare silenzio è invece già oltre, è aprirsi all’ascolto. Come scrive Franco Loi nel suo volumetto dedicato al silenzio e edito da Mimesis, “rendiamoci conto che non solo il silenzio va onorato ma è un tramite necessario alla nostra sete di conoscenza”.
Penso spesso, con sgomento, alla morte di Remo Pagnanelli, uccisosi infilandosi in bocca un tubo collegato con la marmitta dell’auto. Casualità del mezzo scelto? O invece un definitivo segnale di una volontà di tacere, di non più dire, di ricacciare indietro il respiro inquinandolo, fino a spegnere ogni possibilità di voce?
Se il silenzio segnala, nella presa di coscienza della propria finitudine, della propria cavità, la necessità di una risonanza, di un fiato che le dia voce, e dunque un’apertura che è attenta e attiva e pro-positiva; il tacere va invece nella direzione opposta, potrebbe dirsi un “silenzio border-line” con (ri)piegamento verso la depressione e la chiusura.

VII
Tornando per un momento al tema della Creazione, che Dio attua in maniera duale e non dualistica, compenetrativa e non oppositiva, e che porta a compimento trinitariamente nell’amore, ossia nello Spirito (il flatus vitae), un recente studio di Fabrizio Guarducci, La parola ritrovata (Rubbettino, 2013), fornisce un’ulteriore illuminazione al nostro argomentare: “i due emisferi cerebrali devono essere in armonia per poter ottenere il meglio. (…) Gli emisferi coesistono in un rapporto di continua interattività. (…) Il pensiero creativo mescola le carte per una nuova partita.” Anche l’uomo con sé stesso e non altri, dunque, è vocato ad una dualità, ad una interattività. Come scrive Schleiermacher, “confrontarsi dialetticamente con l’altro significa crescere nel conoscere.” Partendo anzitutto da sé stessi, dal nostro personale mistero, che ci attraversa, ci dà significanza, ma anche ci supera.

VIII
Si ascolta nel silenzio e “si ascolta il silenzio come si ascolta l’infinito, e cioè non con la ragione calcolante ma con le ragioni del cuore” (Borgna): l’ascolto del silenzio, allora, diviene una metafora calzante della riflessione profonda, dello scavo esistenziale, ma anche del dialogo con le cose, sino al canto di ritorno che l’arte e la poesia incarnano. È ancora Eugenio Borgna, nel suo recente “Il tempo e la vita”, ad asserire che “l’indicibile fa parte del dicibile e lo condiziona”.

Gustave Doré, La torre di Babele

 

Back to Top