Chi, tra quanti di noi erano stati a Roma in gita scolastica o avevano visto al cinema in un pomeriggio odoroso di caloriferi e pavimento di legno umido di impronte di suole bagnate Vacanze romane con il Gregory Peck che con la disinvoltura di una stalagmite di legno faceva lo scherzo della mano mangiata ad un’atterrita Hepburn portata in Vespa alla bocca della verità a Santa Maria in Cosmedin, sotto sotto, dentro dentro, tra sé e sé, non sognava, oh sì che lo sognava!, che nell’infilarci un disco della Connie Francis – e via giù a ridere col suo “g’è… quaccuno…” -, di Pat Boone o Celentano piccolo o di Paul Anka o Nat King Cole o Serenade della Sarah Vaughan o la zebra a pois nel disco rigatissimo della Mina o Cry ancora di Johnny Ray o Hotta, hotta chocccolatta di chi si ricorda più chi ma ascoltata per ore e ore di seguito fino allo straveggolamento, o Just a dream just a dream mi sembra di Frankie Avalon e Just in time di Nat King Cole e Answer me di Frankie Lane e Magic moment di Perry Como e poi le pere mature e i pullover e i barattoli e le gatte dei neonati cantautori italiani, il mangiadischi, sdentato come una prozia ma vorace come un cugino grasso e bulimico, gli azzannase la mano? Se qualcuno mi giurasse il contrario non gli crederei, non potrei rassegnarmi all’idea, non sopporterei di appartenere ad una generazione così poco visionaria. Accessorio prevalentemente delle giovani fanciulle in musica, macchinetta per me irrinunciabile per la mia necessità di ascoltare ovunque e sempre la musica che mi piaceva e complice a pile di quel certo che di transilvanico dei maschietti che è poi maturato nelle tre o quattro mezze generazioni che ci hanno seguito e che, sono certo, in noi era in embrione, nascosto tra le pieghe di un osare appena un ciuffo qua e là, una brevità del pantalone a sigaretta a scoprire i calzettoni bianchi in quegli anni più alla Presley che alla Gene Kelly che aveva da pochissimo fatto luogo al bacino più rappresentativo del globo rientrando in quinta tiptappando ormai inevitabilmente a ritmo di rock, il mangiadischi – che il moderno ragazzo predark che sono sicuro fosse in molti di noi intravedeva carnivoro – mentuto e di buon palato si mangiava ogni apposita ciambella infilassimo in quella bocca tanto generosa di suoni quanto, per fortuna di tutti, decisamente, assolutamente, tecnicamente discreta, silente su tutto ciò di cui lui, grande divoratore, instancabile azzeratore di pile torcia non ancora a lunga durata, era testimone: colpe tremende! : evasioni musicali in ore di studio, camporelle tra il lusco e il brusco con rischio di rivelatrici, autoadesive, traditrici tracce vaccine sul retro di impermeabili, kilt scozzesi, sottanine plissé, jeans con il risvoltone e i primi panta- gabardina da ragazzo grande, completini twin set di orlon da ragazze della porta accanto ma scicchine e giubbottini di renna da quel che più tardi si sarebbe chiamato fighetto, giuramenti di eterno amore vista golfo, vista lago, vista lungofiume, vista valle o anche vista piazza della stazione o delle poste o vista cortile della casa dell’amica che ospitava l’incontro galeotto alla poveri ma belli fra te e la sorella del tuo migliore amico che in un altro incontro galeotto si giurava lo stesso amore con tua sorella al suono di un altro mangiadischi a casa di un’ altra amica compiacente anche lei e anche lei con cameretta vista sul cortile condominiale con tanto di agave e palma e pitosforo e vasca dei pesci e cagnetto, della portiera signora Guglielma, che come uscivi in bicicletta per riportarti a casa il tuo album di 45 giri con la maniglia infilata al manubrio o appoggiata al fanale, ti azzannava l’orlo dei pantaloni anche loro più alla Presley che alla Gene Kelly sempre per il solito motivo della recente abdicazione dell’uno danzatore acrobata in favore dell’altro vocalista oscillatore.
In una gita terra-mare-isole-terra che la Bruna ha poi sempre ricordato come pic nic nonostante avessimo pranzato a branzini e cacciucchi in uno dei migliori ristoranti della costa toscana, il mio mangiadischi, verde come le tappezzerie delle littorine, si intossicò a suon di “è mezzanotte, anzi lo era, tra un bacio e l’altro ormai rintoccano le due….” che il nostro Caronte e San Cristoforo, babbo della Bruna stessa, si era portato dietro in macchina in un cofanetto che conteneva in più cialde “tutto il meglio di…”. E mi sembrò di sentirlo tirare un sospiro di sollievo come se gli avessi infilato in bocca una Valda quando, tornati a casa, gli sparai dentro, come un antidoto, For all we know di Billie Holiday. Mi parve di vederlo, anzi, a un tratto lo vidi proprio, partire al galoppo tra praterie di lucente, altissimo e per quella nostra età recepibile ma indecifrabile fatale dolore, abbeverarsi a un ruscello di luce cosmica, planare sulla cresta di una distesa di speranze umane panneggiate sulle inflessioni di quella voce e tendermi una cinghia per ringraziarmi di aver percepito che anche i mangiadischi avevano un’anima che si nutriva di quello che altre anime emanavano cantando. Poco più tardi, quando mi risvegliai giusto in tempo per infilarmi nel letto, mi resi conto che avevo fatto né più né meno come Dorothy anche se, invece della lunga strada gialla per Oz, avevo infilato, per un’oretta, quella che portava al cuore dei mangiadischi. Ma ormai, per me, il mangiadischi il cuore ce l’aveva davvero, e doveva essere il mio a rappresentarlo, a scegliere per lui. Una delle mie prime responsabilità. Da allora non gli feci più mancare niente di tutto ciò che di variatamente appetitoso si trovava in 45 giri. Quasi volessi educarlo sentimentalmente. Come se farlo mi facesse sentire la coscienza a posto nei suoi confronti. E Banana boat di Belafonte, che aveva già qualche annetto ma a quell’epoca i pezzi rimanevano giovani e nelle classifiche d’ascolto per anni e anni, era, per il mangiadischi, con Patricia e gli altri stuzzicanti mambo di Perez Prado o i latini ancheggianti-un po’ tradotti-universalizzati di Trini Lopez, una specie di scampagnata con mangiare al sacco ma con varietà di sapori allegri e ringalluzzenti.
Compagno inseparabile di viaggi a corto e medio raggio, il mio mangiadischi lo tradii di brutto quando me ne partii per Londra, sedicenne, con tutto il bagaglio spedito “appresso” per comodità, il passaporto in tasca, con a tracolla il mio Teppaz foderato scozzese, doppio altoparlante interno-esterno sul coperchio a simulare un’intenzione stereo, un po’ più fedele riproduttore di alti e bassi del povero tradito e lasciato a casa; e soprattutto capace di accogliere sul suo piatto, sia pure con dimensioni da portatile, i 33 giri di Ellington e Basie e quelli di Dakota Staton che mio zio mi aveva portato da New York perché in Italia non si trovavano e della Mina che aveva già cantato anche Summer time che nella bocca sia pure a ciabatta sformata del mangiadischi non potevano trovare accoglienza e che avevo deciso avrebbero dovuto essere i miei compagni d’avventura in terra d’Albione; dove appoggiai piede dopo che, totalmente libero dai miei bagagli, non appena imbarcato sul traghetto, che all’epoca era una navona nera con fumaiolo giallastro burro marcio e scialuppe grigiastre da “Cartulina ‘e napule”, mi ero ritrovato a reggere per tutta la traversata della Manica quelli di una giovane moglie di Enna che – con tre figli di tutte le età possibili, anche loro da reggere mentre il mare, quel giorno sull’euforico, ci constringeva ad un samba indesiderato, e una mezza dozzina tra pacchi e valigioni pure loro di ogni misura possibile legati con lo spago – andava a raggiungere il marito a Glasgow. In quell’inverno londinese, mentre ascoltavo Awfull sad di Ellington e Nuie di Mina accanto al caminetto con il fuoco a gas di camera mia nel mini-flat nella Mansion piena di studenti non ancora hippies né intillimanici o tantomeno rasta di Lancaster Gate dove in inglese una mattina leggemmo chissà cosa del crollo di Kruscev, mi ritrovai spesso a sperare che la Marghe, alla quale avevo lasciato il mio mangiadischi, lo nutrisse come era stato abituato. Quando tornai, fu per me un’anticipazione di par condicio riassicurargli la partecipazione ai nostri momenti quali che fossero: agli alti o ai bassi delle esplosive, fulminanti e fulminee scoperte ed esplosioni sentimentali, ai dopocena d’inverno nel garage riscaldatissimo della casa del Ciccio durante i quali sognavamo di diventare, crescendo, un po’ debosciatelli, un po’ rive gauche, perdutini quel tanto che credevamo ci avrebbe evitato di conoscere la noia. Fu con noi, quella specie di portadentiere canoro, a suonare le più varie, appoggiato su un barile di catrame col coperchio tutto svirgolato, anche nei giorni della scoperta del fai da te quando, armati di attrezzi fino ai capelli a spazzola, passammo tre settimane a sverniciare la barcona in disfacimento del babbo del Gianugo da noi messa ai restauri rovesciata sull’aia della casa di campagna tra i vagheggiamenti e una di giorno in giorno lievitante lista di dettagli su una futura crociera estiva sottocosta che si incagliò nell’incepparsi del restauro ai primi sgretolamenti delle prime tavole del fasciame alle prime piogge di aprile. Ma quell’estate, il mio ormai nostro mangiadischi se la visse alla grande lo stesso. Sempre con noi. Come cretini passavamo nottate abbivaccati e sonnecchianti tra un sogno e l’altro distesi tra le rovine della Rocca Malaspina sul primo colle a un chilometro dal mare nero e lucido là in fondo e Ray Charles cantava Georgia on my mind, se da mangiare al mangiadischi glielo dava la Giovanna, o, se a imboccarlo era quell’esagerato di Albertone, le poesie di Neruda o le canzoni della Laura Betti con i testi di Arbasino e Moravia che all’Andrea facevano esalare Dio, che palle!… mentre gli altri lo pensavano soltanto, oppure Cry me a river con gli sfiatamenti avvolti nello chiffon verde acqua di Julie London o il jazz moquettato di country di Peggy Lee che cantava Fever e Lover o le prepotenze di Sassy Vaughan che gli dava dentro come una matta con Perdido come se rincorresse un qualche pilota di una delle più esaltanti carrere messicane. In quelle notti, lui, il mio mangiadischi, fece in tempo a banchettare con L’ultima occasione e Era vivere di Mina che puntualmente, ogni sera, avremmo poi ricantato riscendendo piano piano sui tornanti della collina, afflosciati e stampati come decalcomanie sui sedili delle macchine, a notte fonda. Nelle più affettuose di quelle sere, tra quel che rimaneva dei pochi merli su quel che rimaneva delle torri e la luna, appariva sempre una nube a rendere più discreta la luce notturna su certi sogni giovanili ad occhi aperti quando il boccone era Billie Holiday che cantava What’s new?. E, che cretini!, forse per l’effetto di un’indigestione di bellezza, ci sembrava che tutto, intorno, rispondesse.