Un appunto sulla bustina di Minerva, passeggiando con lo sguardo a terra

Carlo Nardi

Su cosa poggiano le città? Cosa le tiene salde al suolo? E’ molto diretto e comune guardarle come organismi vitali quasi fossero, oltre a dei corpi, anche degli ammassi frondosi di mattoni e cemento. E’ molto facile, quindi, anche associare le radici delle piante alle fondazioni dei nostri edifici. Nell’analogia, spingendoci oltre, guardiamo con similitudine al luogo che non vediamo, sottoterra, dove pianta ed edificio si radicano, dove prendono possesso e consistenza ambedue per poter crescere ambendo al cielo.

E’ vero. E’ sottoterra che l’edificio si fonda incrociando la selva di reti e servizi, fogne, tubazioni, condotte… ma quel luogo, eccezion fatta per alcuni affascinanti spazi ipogei che, ad esempio, riposano sotto molti centri storici, non gli è proprio. L’edificio e la città lo dimenticano presto.

Damiel (foto di F. Davoli)
Damiel (foto di F. Davoli)

La vera radice dei nostri luoghi costruiti è quello che molti architetti, esulando dalle questioni eminentemente tecniche di isolamento e protezione dell’involucro, chiamano “attacco a terra”. Vorrei definirla come quella fascia che segna lo stacco tra il terreno vergine e ciò che vi si eleva, quel luogo che segna e orienta, fissa i limiti, crea inviti, scherma, nasconde, inquadra agli occhi di chi lo attraversa. E’ il luogo del passeggio e passaggio, della vera ricchezza del suolo. E’ il tema che ha sempre interessato chi si confronta con la città storica consolidata per trovare una chiave contemporanea alla ricomposizione delle complessità. Un tema caro a Vittorio Gregotti e allo scomparso Bernardo Secchi, ambedue della tradizione della suola veneziana di architettura ed urbanistica. E’ il tema di chi vede come prioritario il tema del progetto di suolo che non è decoro e trucco, non è arredo urbano ma attenzione allo spazio “tra” le cose, allo spazio di connessione e relazione spesso sminuito di senso e reso residuale tra roccaforti di interesse privato e particolare.

La ricchezza particolare della città storica è proprio la ricchezza del suo suolo (pavimentato o di terra battuta che fosse o sia) che si riflette anche nell’abbondanza dei nomi delle cose: portico, loggia, loggiato, piaggia, rampa, vicolo, via, corte,… Una ricchezza in parte compromessa dalla rigida applicazione dei regolamenti d’igiene ed edilizi dall’Ottocento ai giorni nostri.

La civiltà umana da nomade e rurale è cresciuta come civiltà urbana e sempre più in futuro la città sarà l’incubatrice della trasformazione in un mondo che ruoterà attorno a nuovi “cento campanili” mondiali, o forse ancor meno. Centri e concentrazioni che sembrano dirigere risorse, capitali e decisioni dall’interno di torri a specchio.

In passato non erano i piani alti ad essere il fermento ma il suolo, il terreno dove si muovevano ed incrociavano le storie: presso il basamento di palazzo Medici a Firenze, quello del palazzo degli Strozzi contornato da panche in pietra, presso i portici di Rialto e quelli di Bologna, le corti milanesi, i passage parigini…

Riprendendo il discorso appena accennato attraverso le ricchezza della lingua che è segno della ricchezza della realtà si potrebbe tornare a indagare ed interrogare le parole: ciò che è sottoterra a reggere l’edificio propriamente si dice “fondazione”. In ambito tecnico “fondamenta” non è un termine molto appropriato. Fondamenta però è il termine della toponomastica veneziana che incrocia meglio il senso di quello che finora sto tentando di esprimere. La fondamenta è la strada, la riva che costeggia i canali, il contatto e centro degli elementi nutrienti della città, ovvero acqua e terra. Le nostre città non si fondano semplicemente su massicciate, platee in calcestruzzo, travi rovesce ma sul sottile strato percorribile a piedi, passeggiabile (per usare un neologismo), sui gradini che si salgono, le rampe che si scendono, sulla sottile crosta per i pedoni, di chi sbraita, di chi si ferma a salutare, di chi contratta, di chi osserva… l’attacco a terra delle vite comuni che dal basso, di tanto in tanto, alzano gli occhi sui balconi e sui cornicioni e, a volte, ancora più in alto.

E’ quel luogo intessuto di legami che anche Damiel, l’angelo interpretato da Bruno Ganz ne “Il cielo sopra Berlino” vuol vivere.

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