“… sarete fragili e permeabili, perciò / immensi …”
La specie dominante è un libro che ha consistenza lirica. Questa è forse la frase più adatta per indicare la virtù dell’ennesima prova poetica di Nicola Bultrini, classe ’65, poeta, scrittore, saggista e storico. Infatti, come in poche altre esperienze di lettura recenti, ritroviamo nelle sue poesie una sostanza piena, totalmente ripulita dalla retorica; una riflessione onesta, lontana dai paralogismi che sembrano tanto piacere ai lettori slombati di acrobazie stilistiche e filosofiche.
No, la poesia di Bultrini è per la gente che ha intenzione di metterci le mani, di caderci con tutto il corpo, di combattere nudi sulla parola, sul capoverso, sullo spazio della strofa. La specie dominante è un libro per gente che ha fame, non tanto di cibo materiale ma, come sottolinea nella prefazione Franco Loi, di amore e di speranza, sentimenti che sembrano non condivisi nella nostra società. Non c’è nessuna nostalgia conservatrice, nessun guardarsi indietro con patetismo; c’è invece una volontà di ricordare – e la memoria è fondamentale in questo libro – con sguardo trasparente.
Se tanta avanguardia ha cercato di obliare il passato, volgendosi solo in avanti, Nicola Bultrini sa invece costruire partendo dalle più profonde domande di senso che hanno, e non si può negare, toccato anche la vita delle generazioni precedenti la nostra. Dimenticando, cosa che da intellettuale e storico quale è non può fare, si precipita nel buio: invece si cerca la luce, sempre si tenta la risposta più chiara, che non sempre è la meno profonda, e il poeta è sempre un Aiace, che nell’umiltà del eroe, vinto tra i vincitori, non vuole morire nell’ombra. L’oblio è un nemico prepotente in questa raccolta. Ed è l’altra faccia della lama con cui ci si osa specchiare: proprio il passato costituisce, oltre che la più forte prospettiva, anche il più rischioso strapiombo, soprattutto se si rievocano ricordi davvero lontani.
“I pastori venivano dalla campagna / romana all’inizio dell’estate”, oppure “La tradizione del vetro è un ricordo / lagunare sottopelle” e ancora “Erano accampati a ridosso della frontiera / i briganti del regno dei Borboni”.
Vedere al passato significa dunque avere coraggio, confrontarsi con una vertigine cronologica in grado di trascinarti via. Bultrini è in grado invece di affrontare questa dimensione, che gli è sempre stata familiare, anche nei precedenti libri (come ne I fatti salienti, Nordpress 2007), e noi diventiamo parte di quel percorso che tende all’amore, un amore quotidiano, intimo, non metafisico, non astruso o concettoso, quell’amore povero, che ci porta –come l’autore stesso dice – a scrivere come si può.
Si ha voglia, finita la lettura delle settanta pagine, di chiedere alla persona più vicina la carezza più tenera e puntuale, il gesto più nobile che ognuno di noi possa concedere, l’abbraccio cum grano salis, l’abbraccio cosciente, quello di un amore che ha saputo vincere le contingenze della vita rimanendo fortemente intrecciato ad esse, che non ha tentato l’alienazione, ma l’immersione più totale, quella che noi definiremmo, con una parola, Vita.
Il pensiero di Bultrini va interpretato, ancora, in chiave di speranza, dove al buio di una notte che “ha sapore di acque amare” si contrappone una vivacità privata, quella della famiglia dei cari del passato, una proposizione in avanti. Ogni tema diventa una spinta, nessun giudizio di fondo dato da un pulpito, ma una compartecipazione alla condizione umana e sociale del nostro tempo. Una compassione e una comprensione, nel senso di prendere con sé, dei luoghi di oggi. La specie dominante è l’uomo di oggi, della tecnica, l’uomo indiscusso che degrada nella miseria meccanica di heideggeriana memoria. Un uomo elettronico, un automa senza possibilità di dialogo.
Ecco l’ultimo punto al quale il libro si apre. La dimensione della discussione è infatti evidenziata e sembra in contrasto con la presunta dominanza di una specie. Ma, attenzione, il discorso di Bultrini non mira ad appiattire a terra ogni uomo, togliendo a tutti la possibilità di diventare alti, bensì tiene in grappoli di parole i suoi cari, l’umanità intera, e tenta di portarli con sé verso una luce, verso il più grande sguardo su noi stessi, il nostro. Uno sguardo che la gente può scegliere di intravedere “con la coda dell’occhio” – che rimanda ad un suo precedente libro; e in un gesto intimo, come scattare una foto, si sublima l’eternità e la storia, si dimentica la dimensione saggistica di tanti che prima di lui avevano tentato di utilizzare la storia in senso lirico.
Infatti, superata la metà del libro, la poesia e la storia diventano una sola cosa, tu la percepisci e te l’aspetti, ma non ne sentirai più il richiamo evidente. La poesia diventa sussurro, la storia sparisce. Se prima quest’ultima serviva a comprendere l’autore, ora Bultrini ci è accanto, ci sentiamo vicini, in empatia, e tutto fluisce come un orizzonte atteso che non delude la speranza, la speranza di una poesia sincera che guardi con lucidità alla nostra realtà, senza innalzarsi a carme politico ma rimanendo nella sua – seppur apparentemente piccola – grandezza lirica.
Guarda quant’è grande
il mio corpo
quanta carne e sangue
è un peccato tenerlo tutto insieme
occupare lo spazio
vorrei farlo a pezzi
e regalarlo
che me ne faccio da solo
di questo corpo gigante
quanto è più dolce
lasciarlo per amore
nell’aria a consumarsi.
* * * * *
Scivola sicuro lo scafo
sull’acqua immobile. La notte
di luci e temporali
e le campane sull’ultimo parlare.
Una coppia abbracciata sopra al ponte
immagina la foto, incerta sullo sfondo
la stessa ripetuta mille volte.
Ma aiutami a tornare dove sei.
Mi sono mosso impercettibilmente
un giorno dopo l’altro.
Però ti scrivo come posso
altri mi osservano passando.
Ignari
mentre brucio nello sguardo.
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Le poesie sono tratte da
Nicola Bultrini, La specie dominante (nino aragno editore, 2014)